Un amore per l’agricoltura ereditato dalla madre e cresciuto dietro il bancone della bottega di alimentari dei genitori, a Caresana, nel basso vercellese, un paese alla confluenza di tre province, Vercelli, Pavia e Alessandria. Un centro di appena un migliaio di anime, ma con vie centrali e palazzi degni di un capoluogo di provincia, famoso soprattutto per l’annuale corsa dei buoi. Qui Filippo Conti impara dalla madre (che di cognome fa Cattaneo) la vita della terra e muove i primi passi a scuola, per approdare poi all’istituto agrario Galileo Ferraris, di Vercelli, dove si diploma nel 1969, poi alla facoltà di Agraria di Torino.
«Il mio primo impiego da agronomo – racconta Filippo Conti – arrivò attraverso un annuncio del periodico “La Sesia” di Vercelli. Cercavano un agente di campagna in una grande azienda di Castello d’Agogna, in provincia di Pavia. Si trattava di lavorare per la Società Agricola Sviluppo, di proprietà di Vera Coghi, un personaggio che poi è tornato sulle cronache per il suo testamento multimilionario, nel quale ha destinato un enorme patrimonio alla sanità lomellina. Era il lavoro dei miei sogni, ma durò pochi mesi, perché l’azienda enorme andò affittata». Così nel 1976 Filippo Conti prende la via dell’insegnamento, per debuttare a Trino, come precario, e poi proseguire una carriera di insegnante prima all’istituto Cavour, per geometri e ragionieri e infine all’istituto di Agraria, sempre a Vercelli. Una carriera che dal 1976 lo ha portato al 2011. Ma non solo. «Dal 1977 al 2005 – ricorda Conti – ho svolto attività di consulenza per la Coldiretti, occupandomi di contabilità agraria nel loro centro di assistenza. Un’attività che ancora proseguo come libero professionista».
Tante generazioni sotto gli occhi di Filippo Conti
Sotto i suoi occhi non passano solo generazioni di ragazzotti di balde speranze, ma anche quasi mezzo secolo di attività agricola, dagli anni dello sviluppo della risicoltura agli anni del boom della soia targato Ferruzzi, quando la Pac privilegiava le colture oleaginose, fino alla svolta della risicoltura in un (quasi) monopolio, quando anche il riso entrò in un regime adeguato di salvaguardia da parte dell’Unione europea. Era il 1997. «In verità – prosegue Conti – nel Vercellese il riso era già coltivazione egemone. Ben diversa la Lomellina, dove le stalle durarono un po’ di più e dove dilagavano i pioppeti, che sostennero una fiorente industria di trasformazione del legno. Basterebbe pensare all’importanza che esse ebbero a Robbio oppure alla Sacic di Mortara».
Proprio le industrie di compensati diventano una locomotiva per l’occupazione e un’ottima possibilità per le aziende agricole: ogni mattina sono migliaia gli operai che entrano nelle ditte lomelline di trasformazione del pioppo, una coltivazione come tutte le altre, ma vittima di una Unione europea che resta inchiodata al binomio legno – foresta che strangola i pioppeti lombardi e fa abbattere le foreste, quelle vere.
Il riso resiste all’industria
«La vittoria del riso – continua Conti – non ha avuto solo motivazioni economiche, anche se proprio il bilancio ha fatto pendere verso il riso in favore degli agricoltori. Ma c’era anche il rebus di gestire coltivazioni non a riso immerse in mezzo alla risaie, con tutti i problemi del caso. Immaginiamoci come si fa, ad esempio, a coltivare soia tra due campi di riso. Certo la monocoltura presenta delle difficoltà sul piano agronomico, impoverisce la dotazione di sostanza organica della risaia, ma con precauzioni come i concimi organici o le colture da sovescio molti agricoltori sono corsi ai ripari». Poi sono arrivate le più moderne tecniche di coltivazione, come la semina a file interrate, sistemi di livellamento tramite laser, le aziende sono diventate sempre più grandi, spesso per un’agricoltura sempre più anziana e con meno possibilità di lavoro. Sono venuti a galla i grandi problemi della risicoltura attuale, primo fra tutti quello di poter stabilizzare un mercato che non sia una lotteria dei diversi gruppo varietali, ma un punto di incontro tra offerta degli agricoltori e necessità delle industrie. Per non parlare delle “frizioni” tra consorzi irrigui e semine all’asciutto, perché da una parte ci sono i vantaggi di investimenti alla nascita quasi perfetti, e dall’altra le difficoltà a rifornire di acqua le camere delle risaie a fine maggio o a giugno. «Il problema delle scelte varietali resta centrale – commenta Filippo Conti – o meglio, il problema di trovare un punto di incontro tra risicoltori e industria risiera che soddisfi entrambi. Oggi sono già molte le aziende che sottoscrivono contratti di coltivazione e penso che quella sia la strada da percorrere. Per quanto riguarda il consumo di acqua di irrigazione bisogna chiarire che con le livellatrici laser si è ridotto moltissimo l’impiego di acqua in risaia, sia per l’impermeabilizzazione delle camere sia perché lo strato di acqua oggi è davvero minimo rispetto al passato». E così per Filippo Conti un bilancio per la risicoltura resta molto positivo, pur nelle consuete difficoltà di ogni settore economico. Forse l’unico neo è un’agricoltura dove i giovani sono merce rara, tra la difficoltà di trovare terreno da coltivare e il perdurare di qualche preconcetto difficile da sradicare.
«Nel mio lavoro – termina Filippo Conti – ho trovato davvero tanta brava gente e di questo sarò sempre grato alla Coldiretti, che mi ha dato modo di questa esperienza di vita. Ma non posso non evidenziare come, sia tra i banchi di scuola che nel mondo economico, non sono mancati e non mancano preconcetti. I giovani che studiano materie agrarie e i giovani che si dedicano alla coltivazione dei campi, non sono visti come i più “brillanti”, anzi. Soprattutto così era negli anni ’70 e ’80. Un fatto culturale del tutto ingiusto». E su questo filone varrebbe la pena di leggere le bellissime “Piccole storie lomelline” del compianto scrittore lomellino Carlo Grigioni, decine e decine di racconti brevi e di sceneggiature teatrali che raccontano proprio aneddoti sui disagi dei giovani di campagna, frustrati per il disinteresse delle loro coetanee e con la perenne tentazione di trovare lavoro in città. Il mito di “giacca e cravatta” stenta a morire. Autore: Giovanni Rossi