Se per gli utilizzatori di prodotti fitosanitari il quadro è confuso, non meno complessa risulta la situazione riguardante l’abilitazione dei consulenti. Come noto la dir. UE 128/09 ed il PAN (DM 22/01/14) hanno introdotto l’obbligo di formazione e di certificazione anche per i tecnici che intendono svolgere attività di consulenza nell’ambito della difesa fitosanitaria a basso apporto di prodotti fitosanitari, indirizzata anche alle produzioni integrata e biologica, all’impiego sostenibile e sicuro dei prodotti fitosanitari e ai metodi di difesa alternativi. Su questo aspetto controverso si sono avuti i ricorsi di agronomi ed agrotecnici, giudicati ammissibili dal Consiglio di Stato e rinviati all’ esame dei TAR del Lazio e del Friuli, davanti ai quali sono tuttora pendenti. Quello del consulente è un “patentone”, teoricamente “uno e trino”: il punto A.1.3 del PAN stabilisce infatti che “…la formazione e la relativa valutazione finalizzata al rilascio del certificato di abilitazione all’attività di consulente valgono anche come formazione e relativa valutazione finalizzata al rilascio del certificato di abilitazione all’acquisto e all’utilizzo dei prodotti fitosanitari…” ma pure “…come formazione e relativa valutazione finalizzata al rilascio del certificato di abilitazione alla vendita”.
Nella pratica tuttavia la “trinità” del “patentone” si riduce ad una semplice bivalenza (come abilitazione alla consulenza ed all’ acquisto/utilizzo) in quanto l’ abilitazione alla vendita compete ad un organo amministrativo (l’ autorità sanitaria territoriale) diverso da quello (generalmente la Regione) competente per il rilascio delle autorizzazioni per utilizzatore e consulente. Inoltre, a norma di PAN, l’ attività di consulente non è compatibile con quella di venditore o di dipendente di società e ditte che producono o vendono prodotti fitosanitari.
Le norme per il rilascio del certificato da consulente sono molto diverse a seconda delle Regioni. La “rigorosissima” Lombardia richiede la frequenza ad un corso di almeno 25 ore ed il superamento di un esame di 30 domande, con un minimo di 27 risposte esatte (contro 24 domande, di cui almeno 21 a risposta esatta per l’ abilitazione dell’ utilizzatore). Il fatto che l’ Ordine dei Dottori Agronomi di Milano abbia finora organizzato quattro corsi “base”, con oltre cento tecnici partecipanti (di cui numerosi provenienti da altre Regioni), a cui se ne aggiunge uno della Federazione Regionale degli agronomi, indica che la formula lombarda ha avuto un riscontro certamente positivo, tanto che sono già “in cantiere” corsi di approfondimento specialistico dedicati alle diverse tipologie colturali, tra cui il riso. Ma anche l’ impostazione “efficientista” della Lombardia è stata messa a dura prova dagli eventi abbastanza confusi di questi mesi. La Regione infatti aveva previsto un modello di “patentone”, con tanto di marca da bollo e fototessera, il cui fac-simile era allegato alla DGR 3233/15 (il cosiddetto PAR). E con il DDUO 9350 del 6 novembre 2015 aveva ribadito questa impostazione, chiedendo ai tecnici che avevano sostenuto corso ed esame abilitante di inviare mediante raccomandata un modulo in bollo con la domanda di rilascio del “patentone” corredato da una marca da bollo da 16 euro e tre fototessera. Poi, nei giorni immediatamente prima di Natale, la stessa Regione invitava a sospendere l’ invio dei documenti “…in attesa della ridefinizione, che comunque avverrà nel giro di pochi giorni, delle nuove modalità…” di rilascio dei certificati. Le nuove modalità, stabilite con DGR 4900 del 7 marzo 2016, dicono che il “patentone” con fototessera e marche da bollo scompare, sostituito dal certificato abilitante rilasciato dall’ Ente formatore o da una banca dati elettronica. La Regione sta restituendo in questi giorni con raccomandata la marca da bollo e le fototessera a chi le aveva già inviate.
Il vicino Piemonte invece ha un approccio più “articolato”: rilascia il certificato di consulente senza corso né esame a coloro che dimostrano di avere svolto per almeno due anni attività di consulenza in ambito fitosanitario, anche attraverso l’ autocertificazione del lavoro svolto, corredata da contratti o fatture verso le aziende committenti ( DGR 44-645 /2014 e det.568/2015).
Chi non riesce a dimostrare il possesso del requisito deve frequentare il corso (che qui sale a 28 ore) e sostenere l’ esame.
Un approccio simile ha la Puglia (DGR 627/15), che esonera da corso ed esame i tecnici che dimostrano una esperienza almeno biennale in attività di assistenza tecnica e fitoiatrica.
Apparentemente ancor più “permissiva” la Regione Calabria, che rilascia la qualifica di consulente sic et simpliciter a tutti gli iscritti ad albi ed ordini professionali dei tecnici agricoli (DGR 308/2015). Anche se, a ben vedere, l’ approccio apparentemente “permissivo” potrebbe esser più vincolante di quello “rigorista”. La normativa infatti consente l’ accesso ai corsi ed all’ abilitazione da consulente a tutti coloro che posseggono un titolo di studio ad indirizzo agrario (comprese le lauree triennali), indipendentemente dalla loro abilitazione all’ esercizio della professione e dall’ iscrizione ad un ordine o albo professionale. Con questo si potrebbe venire a creare una nuova figura professionale “ibrida” ed un poco strana, dotata di una specifica abilitazione (quella da consulente), ma non di quella per l’ esercizio della professione tecnica, nè dell’ iscrizione ad un ordine professionale richiesta dalla legge per svolgere una libera professione. Le disposizioni attuative della op. 10.1.01 (l’ agricoltura integrata volontaria) del PSR lombardo prevedono esplicitamente che il titolare di azienda agricola in possesso dell’ abilitazione alla consulenza possa fare il consulente di sé medesimo. Il che ha probabilmente una logica, non configurandosi di fatto in questo caso una prestazione professionale verso terzi. Più delicato il caso in cui il consulente sia un tecnico esterno all’ azienda agricola ma non iscritto ad un ordine professionale. Le stesse disposizioni attuative della “integrata” in Lombardia prevedevano in sede di controllo l’ esibizione della fattura del consulente per le prestazioni professionali svolte: il che comportava di conseguenza l’ obbligo di appartenenza del medesimo ad un ordine professionale (in assenza del requisito non si potrebbe emettere la fattura). Ma nella revisione pubblicata sul BURL del 30 marzo,di cui Riso Italiano ha già dato anticipazione, questo obbligo è stato inopinatamente cassato (ponendo anche qualche interrogativo sulla regolarità della procedura da un punto di vista fiscale e più in generale sulla tracciabilità del pagamento della prestazione professionale).
C’ è anche un altro aspetto da rimarcare. L’ evoluzione normativa infatti, anche attraverso l’ obbligo di emettere ricetta per l’ acquisto dei prodotti fitosanitari -che comunque è prevista solo in alcuni casi dalle misure per la difesa integrata volontaria inserite nei PSR o da altre norme specifiche (come quelle del verde urbano in Lombardia descritte al cap.9 della DGR 3233/15) e non per l’ uso “generale”- introduce nuovi e significativi profili di responsabilità in capo al consulente. Ma solo chi è iscritto ad un ordine è per legge soggetto all’ obbligo di assicurazione sui rischi professionali: un aspetto da non sottovalutare anche per tutelare l’ utente finale, cioè l’ agricoltore, da possibili sgradevoli sorprese.
Un’ ulteriore stranezza emerge dall’ esame della normativa relativa alla tenuta del registro dei trattamenti. In particolare in Lombardia è già obbligatoria (con decorrenza 1 gennaio 2016) la tenuta del registro elettronico in ambiente SISCO per le aziende maidicole con SAU superiore a 300 ettari, per quelle risicole oltre 250 ettari (il limite scende a 150 ettari per le aziende in Aree Natura 2000 quali Sic e ZPS) e per quelle viticole oltre 60 ettari. Secondo la normativa il registro può essere tenuto direttamente dal titolare dell’ azienda, accedendo all’ applicativo SISCO sezione“Registro trattamenti” (peraltro di uso non propriamente intuitivo) con l’ apposito lettore di smart-card , la tessera sanitaria (CRS o CNS) ed il PIN identificativo. Oppure delegato ad un CAA, in cui la gestione del registro trattamenti potrebbe essere assegnata ad un qualsiasi impiegato, magari neppure in possesso di titolo di studio in ambito agrario (!). La tenuta del registro non può invece essere delegata al consulente, che al momento non può accedervi neppure nella modalità “consultazione”. Una situazione veramente strana, magari ineccepibile sul piano normativo ma perlomeno opinabile su quello della logica, su cui forse sarebbe opportuna una riflessione.
Ma una riflessione più complessiva andrebbe forse fatta sul concetto stesso di consulenza. Che poteva e può ancora rappresentare una grande occasione per implementare un sistema di assistenza tecnica indipendente e qualificato a servizio della nostra agricoltura. Esigenza forse meno sentita nel settore risicolo, in cui operano ottimamente i tecnici dell’ Ente Nazionale Risi , rispetto ad altri comparti produttivi per i quali il problema è più rilevante. Il rischio che si corre è quello di instaurare un apparato di “consulenza” essenzialmente formale, basato sull’ adempimento burocratico, sull’ avere “il pezzo di carta…che in Italia vale tantissimo”(come dice in un memorabile video un noto costruttore di attrezzatura meccanica da risaia), ma sostanzialmente avulso dalla realtà e dalle esigenze dell’ agricoltore. A prescindere da ogni considerazione che potrebbe apparire “corporativa”, un nuovo fardello burocratico -con costi certi e benefici aleatori- è un lusso che non solo l’ agricoltura ma tutto il sistema economico non si possono permettere. Autore : Flavio Barozzi, dottore agronomo flavio.barozzi@odaf.mi.it (07.04.2016)