E’ un periodo di incomprensioni e scontri tra il Governo Italiano e l’Unione Europea. Nello scorso mese di agosto, mentre infuriavano le polemiche sugli sbarchi dei migranti clandestini nei nostri porti, si alzarono autorevoli voci politicamente impegnate per affermare categoricamente: «Se l’Unione Europea non vuole accettare le nostre proposte, noi siamo pronti a tagliare i fondi che diamo all’UE. Vogliono 20 miliardi dai cittadini italiani, dimostrino di meritarli». La minaccia aveva subito ottenuto la risposta piccata del commissario europeo al Bilancio Oettinger: «Se l’Italia rifiutasse di pagare i suoi contributi al budget UE costituirebbe una violazione degli obblighi dei Trattati e porterebbe a possibili pesanti sanzioni. Occorre collaborazione e non minacce». Detto in altri termini: i vincoli economici europei si rispettano. Nel mese di novembre il contrasto si è fatto più acuto. Il Documento Economico presentato a Bruxelles è stato bocciato con probabili sanzioni in quanto definito da un commissario dell’UE una manovra non per la crescita, ma per comprare consensi, e si è scatenata ancora la bagarre con sarcastiche prese di distanza del Governo italiano dall’Europa.
I rischi che corriamo
Di questo inconsueto duello verbale a me interessa rilevare non tanto la superficialità delle minacce e l’incompetenza dei contenuti o l’arroganza dei comportamenti, quanto le conseguenze e i riflessi economici che un’eventuale rifiuto del pagamento ricadrebbero sull’agricoltura italiana e sul mondo agricolo. Conseguenze non emerse e non evidenziate dai commentatori, come se ciò che avviene nel settore agricolo fosse insignificante ed estraneo alla filiera alimentare, ben apprezzata quando si tratta di chef e piatti prelibati. Infatti un eventuale rifiuto del pagamento degli vincoli europei corrisponde a circa 16 miliardi di euro, a cui corrisponde un ritorno di circa 14 miliardi vincolati all’agricoltura ed alle aree depresse. Ecco perché il fatto giudicato da certi settori dell’opinione pubblica come atto di forza e di giustizia si ritorcerebbe contro il mondo agricolo italiano e le aree del sottosviluppo, pensiamo ad alcune Regioni del Sud.
Ogni anno l’Ue ci garantisce 7 miliardi
Infatti: a) Togliere il contributo italiano all’UE porta inesorabilmente un grave danno all’agricoltura alla quale sono destinati circa 7 miliardi di euro ogni anno per le aziende agricole e per i giovani che tornano alla campagna. Pochi sanno che gli aiuti europei rappresentano in media il 25% del reddito dei produttori e che l’UE destina circa 10 miliardi a sostegno delle aree rurali ed altri ingenti fondi per lo sviluppo delle regioni depresse. Purtroppo detti fondi rimangono costantemente sottoutilizzati per l’incapacità delle Regioni di impegnarli per lo sviluppo.
L’incubo della nazionalizzazione
b) Togliere i contributi all’Europa significa uscire dalla Politica Agricola Europea e tornare alla nazionalizzazione dell’agricoltura e, considerata la propensione alle mance elettorali nella destinazione della corta coperta finanziaria italiana, le imprese agricole rimarrebbero esposte al vento della concorrenza europea più competitiva ed agguerrita. E questo è un pericolo già sottotraccia nella prevista riforma della PAC.
Una campagna antieuropea
c) Togliere i contributi all’Europa senza sentire opinioni contrarie rientra purtroppo nel clima derivato dalla forte campagna antieuropeista che trae origine dalla percezione di un’Europa sempre più lontana dagli Europei. Un’Europa che presenta troppe differenze tra gli Stati e le comunità nei costumi, negli interessi, nelle politiche di sviluppo: un’Europa che vede Paesi economicamente forti ed altri deboli carichi di debiti che spremono imprese e famiglie e non crescono.
Un bilancio sempre più risicato
d) Togliere i contributi all’Europa sarebbe un danno ancora maggiore nel contesto delle manovre in atto a livello di Bilancio europeo per compensare la perdita di 12 miliardi di euro all’anno causati dalla Brexit. C’è infatti chi pensa di pareggiare il Bilancio riducendo la quota destinata all’agricoltura. E’ evidente che è proprio su questo fronte che occorre trasferire ogni sforzo politico e diplomatico: le battaglie si vincono con la fermezza, ma nel contesto dei trattati e ricorrendo quando necessario alla persuasione e alla collaborazione.
Anche l’Ue deve cambiare
A lato delle precedenti affermazioni è doveroso riconoscere che l’Europa di oggi non è più quella fondata da De Gasperi, Adenauer o Schumann e sentita dai cittadini europei di allora. Forse è necessario riprendere lo spirito della fondazione, ricostruire su nuove basi la fiducia, l’entusiasmo per una realtà non solo economica, ma anche culturale, memore della storia e delle civiltà giudaico- cristiane ed illuministiche che hanno composto il Continente europeo. E’ necessario costituire un blocco in grado di competere con le nuove potenze mondiali Stati Uniti, Cina-India e Russia, per non essere sopraffatti dai competitori esterni e dalla strisciante espansione dell’islamismo, cultura estranea alla nostra civiltà. Per la rinascita occorre collaborazione. Quindi è necessario affrontare e risolvere anche i nuovi problemi emersi negli ultimi anni, superare i nuovi ostacoli con la reciproca comprensione: sui migranti clandestini occorre rivedere il Regolamento di Dublino, investire di più nel Nord-Africa per frenare l’emigrazione, dannosa anche per i paesi africani, regolare con giudizio i dazi ai prodotti agricoli importati dai Paesi Terzi e mantenere buoni rapporti con gli USA e con la Repubblica Russa evitando sanzioni controproducenti. Dall’agricoltura alla cooperazione internazionale i problemi sono ancora molti e impegnativi, ma è buona cosa evitare che si faccia dell’Europa il capro espiatorio delle carenze nazionali invece di pensare seriamente a salvare l‘impresa e la proprietà agricola, basi vitali della società, che rappresentano ancora oggi un baluardo alla crisi della società, sempre più povera, nevrotica e insofferente. Autore: Ettore Cantù, Presidente Onorario della Società Agraria di Lombardia