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SEMINARE RISO, PURCHÈ…

da | 19 Mar 2018 | NEWS

Cosa seminare? Ovverossia: che riso seminare? Domanda impossibile, pronunciata con un tono di sconforto. Ma domanda che passa di bocca in bocca, in questi giorni, e che quindi non possiamo ignorare. Qualche agricoltore ipotizza la scelta radicale della non coltivazione o di una “coltivazione minima”, consistente nel seminare un quantitativo appunto minimale di prodotto derivante da reimpiego aziendale, al solo scopo di percepire i contributi previsti dalla Pac ed eventualmente da misure del Psr a fronte di costi pressoché azzerati. Si tratta di un’opzione forse comprensibile sul piano emotivo e probabilmente giustificabile sul piano economico nel caso di aziende in cui il costo di produzione ordinario dovesse risultare superiore alla produzione lorda vendibile, per cui produrre significa erodere la “rendita” rappresentata dai contributi PAC.

Ma è un’opzione che, al di là di ogni considerazione “etica”, appare di breve respiro e non priva di rischi. Specie se si considera che le contribuzioni previste dalla Pac (su quelle del Psr, in particolare se relative a misure agro-ambientali, il discorso dovrebbe essere un poco diverso) potrebbero risultare sempre meno gradite dall’opinione pubblica. E che anzi (senza voler fare del gratuito allarmismo ma per oggettiva deduzione logica) un ipotetico nuovo governo nazionale scaturito dall’attuale confuso quadro politico potrebbe attingere proprio ai fondi destinati all’agricoltura per finanziare le misure di “reddito di cittadinanza” promesse in campagna elettorale e che, secondo fonti di stampa, hanno già suscitato una sorta di assalto agli sportelli di patronati, centri di consulenza amministrativa ed uffici comunali in alcune parti d’Italia.

Volendo fare, come sembra più corretto, scelte di tipo imprenditoriale, la situazione di incertezza rende le cose piuttosto complicate. Va premesso che per alcune aree risicole l’opzione di coltivare riso in monosuccessione o quasi è di fatto praticamente obbligata dalla caratteristiche dei suoli e da un andamento meteo di questo primo scorcio di primavera che sembra voler compensare il relativo deficit pluviometrico del 2017 (anche se il livello del Lago Maggiore, fondamentale bacino di accumulo di acqua per l’areale risicolo occidentale, tuttora stranamente mantenuto prossimo allo zero idrometrico, non annulla le preoccupazioni per una stagione irrigatoria lunga ed incerta).

In aree a maggiore flessibilità colturale va ricordato quanto disposto dal “Regolamento Omnibus” di revisione della PAC, in cui si conferma l’esenzione da obblighi “greening” per le aziende con più del 75% della superficie a seminativi sottoposta a sommersione per una parte significativa del ciclo colturale, ma eliminando il precedente requisito di una superficie massima a 30 ettari di colture non sommerse per godere dell’esenzione. Un’agevolazione che potrebbe rivelarsi importante per le aziende di grandi dimensioni , considerato che nelle aree EFA non sarà più possibile coltivare piante azotofissatrici (essenzialmente soia) utilizzando prodotti fitosanitari. Un divieto che probabilmente comporterà una riduzione della superficie coltivata a soia, il cui utilizzo nelle aree EFA era stato interpretato da molti agricoltori come una “uscita di sicurezza” per limitare gli effetti negativi del “greening” sui bilanci aziendali.

La sensazione, in parte corroborata dai dati sul sondaggio semine di Ente Risi e da quanto riferito da operatori del settore sementiero (comunque condizionati dalla crescente anche se tecnicamente discutibile tendenza al reimpiego di seme aziendale), è di una certa riduzione della superficie a riso. Anche se non è chiaro a vantaggio di quale coltura si realizzerà tale riduzione. Difficilmente potrà aumentare la superficie a mais da granella, il cui mercato è condizionato dalla qualità -notoriamente pessima- del mais nazionale. Un gap qualitativo essenzialmente dovuto al perdurante divieto di coltivazione di mais Ogm che, se rimosso, consentirebbe di ridurre la contaminazione da micotossine potenzialmente cancerogene nel mais ad uso zootecnico e forse di riportare la maidicoltura nazionale a livelli di competitività anche al di fuori dell’utilizzo bioenergetico. Considerato che per i cereali autunno-vernini (che presentano qualche interesse per i costi di produzione relativamente contenuti e per i potenziali effetti positivi in un’ottica di gestione integrata delle malerbe infestanti, ma con un quadro commerciale comunque non esaltante) i giochi a questo punto della stagione sono fatti, le possibilità di trovare alternative al riso non sono poi molte.

Ragionando in un’ottica più propositiva, il suggerimento tecnico che si può dare agli imprenditori è quello di cercare comunque di mantenere e se possibile migliorare l’efficienza della produzione. In una parola di cercare di incrementare la produttività, intesa nel senso più ampio del termine: la produttività non quindi legata solo al fattore produttivo unità di terreno, comunque determinante, ma più in generale a tutti i fattori impiegati nel processo produttivo visto nel suo complesso. D’altro canto l’ottimizzazione nell’utilizzo dei fattori produttivi è in ultima analisi alla base del concetto stesso di sostenibilità, termine oggi molto utilizzato e non sempre a proposito. L’interesse in tal senso da parte dei produttori appare notevole, come si è visto in occasione delle due affollate giornate di aggiornamento svoltesi lo scorso mese di febbraio presso il Centro Ricerche dell’Ente Nazionale Risi nell’ambito del progetto SAIRISI, ovvero la branca “risicola” della piattaforma SAI (Sustainable Agricolture Initiative), l’iniziativa internazionale per l’implementazione di pratiche agricole sostenibili. La “due giorni” di febbraio ha consentito di affrontare alcune tematiche di attualità, dalla gestione della risorsa idrica a quelle della fertilizzazione, alle pratiche per il contenimento delle emissioni GHG, fino alle strategie di protezione integrata dai patogeni fungini.

Come generalmente accade in natura e quando si opera con processi biologici “la coperta è sempre corta”: non esistono ricette preconfezionate, anzi in genere non esiste un optimum assoluto, ma bisogna di volta in volta cercare soluzioni tese ad individuare equilibri molto delicati, dinamici e labili. Perchè in agronomia la moderazione e l’equilibrio assumono assoluta e fondamentale importanza e devono sempre prevalere su ideologie, dogmatismi e pregiudizi. Al contrario, i supporti scientifici e tecnologici correttamente utilizzati rappresentano delle chiavi di volta per cercare di ottimizzare l’utilizzo delle risorse e degli imput. A partire dalle analisi del terreno (che talvolta rivelano dotazioni di anidride fosforica assimilabile e di potassio scambiabile tali da consentire risparmi anche rilevanti nell’uso dei fertilizzanti) fino alle più complesse tecniche di “precision farming” (peraltro passibili di ulteriori affinamenti), nel campo della gestione della fertilizzazione gli spazi di miglioramento sono ancora significativi. Altri ambiti in cui cercare di migliorare l’efficienza d’uso delle risorse possono essere rappresentati dalla gestione dei suoli, dalle colture di copertura o da sovescio, da una gestione dell’irrigazione che, sia a livello aziendale che comprensoriale, sappia valorizzare la risorsa idrica quando disponibile preservando la straordinaria capacità di uso plurimo delle acque insita nella rete irrigua della pianura risicola.

Più delicato appare il problema della gestione delle infestanti che, ferma restando la necessità di individuare un approccio quanto più possibile “integrato”, non può prescindere nella generalità dei casi da un razionale utilizzo del mezzo chimico. In questo campo la netta riduzione ope legis delle sostanze attive utilizzabili, con conseguente rarefazione dei meccanismi d’azione dei prodotti ed altrettanto conseguente aggravamento dei fenomeni di resistenza, la cronica lentezza del “sistema Europa” nelle procedure di registrazione di nuove molecole pure già disponibili in altri areali produttivi, le incognite sull’autorizzazione di principi attivi attualmente essenziali attraverso il meccanismo delle registrazioni di emergenza, il rischio di ulteriori limitazioni nei confronti di specifici prodotti di fondamentale importanza nell’individuazione di strategie antiresistenza o più in generale dell’adozione di misure restrittive a livello nazionale sull’uso dei prodotti fitosanitari (che pure ha rappresentato uno dei “cavalli di battaglia” di alcune forze politiche alle recenti elezioni) costituiscono altrettanti fattori di rischio e di preoccupazione circa la sopravvivenza stessa di una risicoltura economicamente e tecnicamente sostenibile in Italia.

D’altra parte la traduzione nella pratica di molte indicazioni teoriche non risulta sempre facile da realizzare  e si scontra spesso con numerosi ostacoli non controllabili dalla volontà degli operatori, dai fattori meteo climatici ai sempre più numerosi limiti e vincoli normativi. La questione dei vincoli legislativi, degli adempimenti normativi e dei relativi costi burocratici sta ormai diventando uno dei fattori di rischio più preoccupanti per le imprese. Un ministro dell’economia di qualche tempo fa asseriva che “la ripresa non si può determinare per legge”, ed in effetti la strada per uscire dal tunnel della crisi passa in gran parte attraverso la capacità degli imprenditori. Per questo le prospettive del settore risicolo saranno più o meno positive nella misura in cui gli imprenditori (sia di parte agricola che industriale) sapranno cogliere le opportunità,  ma anche nella misura in cui le scelte della politica (sia a livello comunitario che nazionale e regionale) sapranno comprendere l’importanza dell’agricoltura come fattore strategico e della libertà d’impresa come elemento di sviluppo. Autore: Flavio Barozzi, dottore agronomo (foto Fusarvideo)

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