Numerosi imprenditori agricoli chiedono lumi ed anticipazioni su quella che potrebbe essere la Pac alla fine del processo di riforma avviato circa un anno fa con l’emissione da parte della Commissione Europea del documento “The future of food and farming”, che di quel processo avrebbe dovuto delineare le linee strategiche. Dare una risposta in questa fase di suprema incertezza, in cui all’ormai scontata Brexit potrebbe aggiungersi un’inopinata Italexit dalle conseguenze probabilmente inquietanti, appare estremamente difficile. E’ tuttavia possibile delineare alcuni scenari che sembrano prendere corpo, anche in funzione di manovre più o meno evidenti da parte di alcuni soggetti, definiti con discutibile anglicismo “stakeholders”, ovvero detentori di interesse, per accaparrarsi le fette più consistenti della futura “torta” dei contributi europei all’agricoltura. La possibile evoluzione della partita è tuttora da decifrare. Come osservava in un recente convegno l’amico e maestro prof. Dario Casati, gli elementi di incertezza sono ancora parecchi, anche in funzione della delicata fase politica che sta vivendo l’Unione Europea, con trattativa Brexit da chiudere, elezioni incombenti, Commissione da rinnovare, e quadro finanziario futuro ancora da definire. In specie questi ultimi aspetti rendono verosimile uno slittamento di uno-due anni dell’entrata in vigore della nuova PAC rispetto all’originaria scadenza, e piuttosto aleatorie ipotesi di quantificazione numerica dei prossimi sostegni comunitari.
Se ne vanno “titoli” e “greening” ed arriva la “rinazionalizzazione”?
Dalle notizie di stampa in circolazione da qualche mese sembra che la Pac prossima ventura sarà ancora incentrata sui due consueti “pilastri”: uno dedicato ai pagamenti diretti e l’altro destinato allo sviluppo rurale, attraverso strumenti simili agli attuali PSR. Sul primo pilastro dovrebbero tuttavia emergere importanti novità. La prima sta negli spazi di “rinazionalizzazione” che l’impianto comunitario potrebbe lasciare ai singoli Stati membri: una prospettiva che non deve far dormire sonni tranquilli ai nostri agricoltori, stante la cronica inefficienza (con consistenti quote di finanziamenti comunitari regolarmente non utilizzate e riconsegnate a Bruxelles) e l’irrefrenabile bizantinismo che caratterizza molte pubbliche amministrazioni italiane; ma anche per un altro motivo che si analizzerà in seguito.
Il calcolo del pagamento di base
La seconda novità, che deriva direttamente dalla prima, sta nelle modalità di calcolo e di attribuzione del pagamento “di base” (che dovrebbe assumere la denominazione di “pagamento di base per la sostenibilità”). Qui ad ogni Stato membro si prospetterebbero due opzioni: 1- un sistema di pagamenti uniformi per territorio con superamento del meccanismo dei “titoli”, che scadrebbero definitivamente all’entrata in vigore della nuova PAC ed assumerebbero quindi in prospettiva il valore di “carta straccia”; 2- in alternativa, il mantenimento del meccanismo dei titoli (che quindi potrebbero conservare in prospettiva un certo valore), anche se con “automatismi di convergenza” per uniformarne il valore (abbassando quello dei titoli alti ed innalzando quello dei titoli bassi). Nel caso in cui lo Stato membro dovesse scegliere il primo sistema (quello dei pagamenti uniformi per territorio) sarà importante capire quale area territoriale verrà presa come riferimento. Nel caso italiano i produttori di territori ad elevata efficienza, quali quelli della Pianura Padana, si vedrebbero più penalizzati dall’adozione di una ripartizione su base nazionale e meno colpiti da una ripartizione su base regionale. Viceversa i produttori di aree ad agricoltura a produttività ridotta verrebbe favoriti da un eventuale “bacino nazionale”.
Il pagamento redistributivo
Al pagamento di base per la sostenibilità dovrebbe essere affiancato un “pagamento redistributivo”, ovvero un meccanismo che trasferisce alle piccole aziende i contributi prelevati attraverso il “capping” alle aziende che superano la soglia massima di aiuto percepibile. Secondo le osservazioni dell’amico prof. Angelo Frascarelli “…questa tipologia di sostegno lascia molte perplessità, soprattutto nella realtà italiana; le simulazioni dimostrano che il pagamento ridistributivo consisterebbe in un importo di pochi euro, destinato a piccole e piccolissime aziende, senza reale efficacia”(Terra e Vita del 18 luglio 2018).
L’eco-schema
Una ulteriore novità sarebbe costituita dal cosiddetto “eco-schema”, ovvero un pagamento supplementare legato all’adesione a meccanismi volontari “benefici” per il clima e l’ambiente la cui definizione è delegata ad ogni singolo Stato membro. Un aspetto delicato su cui in Italia si combatte già senza esclusione di colpi. Non dovrebbe cambiare invece il meccanismo di avvio per i giovani (che probabilmente verrà riproposto in modalità simili a quelle oggi in vigore) mentre potrebbe essere rivisto il regime per i piccoli agricoltori. Dovrebbero essere riproposti pure i pagamenti accoppiati, sui quali decidono già ora gli Stati membri: qui il settore del riso dovrà giocare unitariamente la partita per mantenere un proprio specifico sostegno
Il greening rientra dalla finestra
Come si nota, scompare il pagamento “greening”, che aveva suscitato tante perplessità tra i tecnici per la sua scarsa utilità, e tanti grattacapi ai produttori per gli aggravi di costi che comportava. Ma non è detto che la fine del “greening” sia una notizia positiva. In realtà molti impegni del “greening” potrebbero essere incorporati nella nuova “condizionalità” indispensabile per percepire il “pagamento di base per la sostenibilità”. Per cui il “greening” uscito dalla porta … rientrerebbe dalla finestra. In ogni caso, tra riduzione del budget agricolo comunitario ed effetti della Brexit (il Regno Unito era contribuente netto, ovvero versava alle casse UE più di quanto riceveva in termini di contributi, per cui la sua uscita comporta una perdita secca per i bilanci comunitari), la “cura dimagrante” potrebbe essere piuttosto severa.
Contributi PAC solo al “bio”?
Ma c’è dell’altro: la sostanziale rinazionalizzazione di molte norme potrebbe consentire infatti ai singoli Paesi di farsi una PAC “propria”. In Italia sembra prendere corpo l’idea, sostenuta da esponenti molto aggressivi del cosiddetto “ambientalismo”, di destinare i fondi PAC solo ed esclusivamente a chi pratica agricoltura “biologica” e “biodinamica”, escludendo più o meno totalmente dai regimi di integrazione al reddito le aziende che praticano agricoltura impropriamente definita “convenzionale”. Da indiscrezioni ed osservazioni dei più recenti avvenimenti pare sia in atto un’attività molto esplicita in tal senso, attraverso convegni e pubblicazioni di documenti propagandistici (tra l’altro contenenti errori metodologici così clamorosi da indurre qualche “maligno” ad ipotizzare che si tratti di deliberate “fake-news”). Ma sarebbero in atto pure manovre più “implicite” (anche, a quanto si mormora, mediante operazioni mirate di “addomesticamento” delle traduzioni dei documenti comunitari) volte ad accreditare la tesi per cui solo e soltanto chi pratica agricoltura “biologica” e “biodinamica” è compatibile con gli standard europei sulla “sostenibilità”. E’ verosimile che questo principio possa passare sui pagamenti legati al meccanismo del cosiddetto “eco-schema”, che in Italia probabilmente andranno solo a chi fa “biologico” o “biodinamico”, mentre le attuali misure agro-ambientali dei vari PSR (agricoltura integrata, agricoltura conservativa, biodiversità delle risaie, ecc.) rischiano di essere buttate nel cestino dei rifiuti. Ma l’obbiettivo massimo cui sembrano puntare alcuni “ambientalisti” italiani sarebbe quello di escludere totalmente dalla futura PAC l’agricoltura “tecnologica”, in modo da costringere tutti a passare al “biologico”, non tanto per produrre quanto per percepire contributi.
Le polemiche
Sull’argomento sono in atto accese polemiche tra un gruppo di tecnici e scienziati indipendenti (tra cui chi scrive, per quanto modesto possa essere il suo contributo), che si oppongono a tale indirizzo e difendono il diritto all’esistenza dell’agricoltura produttiva, e settori “ambientalisti” che viceversa propugnano la definitiva eliminazione “ope legis” dell’agricoltura che utilizza moderne tecnologie di produzione. E che costituisce l’elemento portante del sistema agroalimentare italiano, anche in termini di bilancia commerciale. Secondo indiscrezioni, le posizioni “ambientaliste” troverebbero ampio riscontro politico in un “asse giallorosso” parlamentare (in cui la nota cromatica non è evidentemente riferita ad una famosa squadra di calcio) che sarebbe ideologicamente ben lieto di affossare -in nome di un preteso “ambientalismo”- l’agricoltura “industriale” o “capitalista” costituente la parte produttiva della realtà agricola italiana. Probabilmente il conflitto tra chi difende l’agricoltura come attività produttiva aperta al mercato ed integrata con l’ambiente attraverso l’innovazione e l’uso razionale delle tecnologie moderne, e chi vorrebbe farne una sorta di “riserva indiana” orientata ad una decrescita di improbabile felicità, e destinata a percepire qualche forma di “reddito di cittadinanza” slegato dalla effettiva produttività e reale sostenibilità, sarà al centro del dibattito dei prossimi mesi non meno delle discussioni per l’attribuzione di questo o quel fondo comunitario. Sul delicato tema sarà interessante vedere quali saranno le prese di posizione da parte delle varie componenti del mondo agricolo italiano. Autore: Flavio Barozzi, dottore agronomo