Riso in conservativa: hanno attirato l’attenzione dei risicoltori le prove condotte a Pieve Albignola (PV) dai ricercatori dell’Ente Nazionale Risi (Marco Romani, Gialuca Beltarre, Eleonora Miniotti e Andrea Saviolo) e di Disafa (Dario Sacco), aderenti al progetto Poloriso. I risultati sono stati pubblicati sull’ultimo numero de L’Informatore Agrario (43/2013).
L’agricoltura conservativa in risaia – finanziata dal Psr 2007/2013 della Lombardia – prevede tecniche che la meccanica rende possibili anche da noi ma che per ora rendono meno di quelle convenzionali. Le prove condotte in questo caso – che mettevano a confronto aratura, minima lavorazione e sodo, oltre a un programma diversificato di concimazione azotata – “evidenziano potenzialità produttive paragonabili alla tecnica convenzionale nel caso della minima lavorazione e un decremento di produzione nella semina su sodo – scrive l’Informatore Agrario -. Tuttavia i decrementi produttivi ottenuti devono essere confrontati con la riduzione dei costi colturali e i risultati necessitano di una sperimentazione prolungata per più anni. Non si deve comunque dimenticare la difficoltà per la risaia di garantire l’assenza di irregolarità del suolo”.
Entrando nel dettaglio, gli autori della ricerca sottolineano che l’aratura resta la tecnica più diffusa perché consente tra l’altro il “totale incorporamento dei residui colturali, un effetto positivo per il controllo di alcune infestanti e la predisposizione del suolo al successivo intervento di livellamento”, ma non negano che “alla base del ricorso così comune all’aratura sono, forse, anche i forti legami alla tradizione di un settore agricolo molto specializzato quale è quello risicolo”. Un attaccamento alle vecchie abitudini che non impedisce ai risicoltori di sperimentare tecniche alternative, come avviene da qualche anno nella speranza di liberarsi del riso crodo. Da queste prove “dal punto di vista produttivo è emersa chiaramente una minore produttività della semina diretta su terreno non lavorato rispetto alle altre due tecniche. Le quantità di risone si sono attestate attorno alle 8,5 t/ha per aratura e 8,34 per la minima lavorazione, superiori di 0,95 per l’aratura e a 0,64 per la minima lavorazione rispetto alla produzione ottenuta con semina su sodo. Tale risultato è strettamente connesso all’investimento, in termini di numero di culmi per unità di superficie, che le colture hanno conseguito alla raccolta. Nonostante il mantenimento di una medesima dose di seme per tutti i trattamenti a confronto, la percentuale di emergenza delle plantule è stata decisamente superiore su terreno arato, intermedia con la minima lavorazione e chiaramente più bassa su sodo. Nelle parcelle in cui si sono pianificati i trattamenti di agricoltura conservativa si sono registrati i più alti indici di accestimento, che, comunque, non hanno consentito il raggiungimento del livello di investimento finale dimostrato in condizioni di aratura. La determinazione dei culmi fertili ha infatti riportato una discrepanza di quasi 100 culmi/m2 tra la tecnica tradizionale e la non lavorazione”. Secondo i ricercatori, per poter confrontare veramente i tre metodi di lavoro, è necessario prolungare la sperimentazione per diversi anni, onde consentire l’assestamento del proprietà del suolo e valutare il condizionamento dato dalle infestanti (crodo). (Nella foto grande di Fusar la semina in una risaia sommersa. Nella foto piccola, il riso crodo) (6.12.13)