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«PESTICIDI FINANZIATI CON SOLDI PUBBLICI»

da | 8 Set 2018 | Non solo riso

Nei nostri campi, chi inquina viene pagato. È all’agricoltura che utilizza pesticidi, diserbanti e fertilizzanti sintetici che va la quasi totalità delle sovvenzioni europee e nazionali: in sostanza, i soldi pubblici servono per sostenere l’utilizzo della chimica di sintesi. La politica agricola comunitaria sovvenziona infatti per il 97,7% l’agricoltura convenzionale. E quando ai fondi Ue si aggiungono anche quelli italiani, il risultato non cambia: al biologico, che rappresenta il 14,5% della superficie agricola coltivata del nostro Paese, va il 2,9% delle risorse. Anche senza tirare in causa i costi consistenti che l’utilizzo della chimica di sintesi e quindi l’inquinamento provocano sulla nostra salute e su quella dell’ambiente, è evidente che si tratta di una palese inversione della regola “chi inquina paga”.

È quanto emerge dal Rapporto “Cambia la Terra. Così l’agricoltura convenzionale inquina l’economia (oltre che il Pianeta)” presentato oggi alla Festa del BIO che si tiene a Bologna in occasione del SANA, la fiera del biologico italiano, da Maria Grazia Mammuccini, responsabile del progetto Cambia la Terra- FederBio; Susanna Cenni, Vicepresidente Commissione Agricoltura Camera; Giorgio Zampetti, Direttore Legambiente; Franco Ferroni, Responsabile Agricoltura WWF; Fulvio Mamone Capria, Presidente LIPU; Lorenzo Ciccarese, Ricercatore ISPRA; Patrizia Gentilini di ISDE International Society of Doctors for Environment – Associazione medici per l’ambiente.

Secondo il Rapporto, la maggior parte delle risorse destinate all’agricoltura viene ancora usata per finanziare il modello agricolo basato sull’uso di concimi e pesticidi di sintesi chimica. In percentuale le risorse dedicate all’agricoltura biologica, seppure in crescita rispetto al passato, sono inferiori alla media che spetterebbe al settore in base alla Superficie Agricola Utilizzata (SAU) biologica. Per i dati elaborati dall’Ufficio studi della Camera dei deputati, su 41,5 miliardi di euro destinati all’Italia, all’agricoltura biologica vanno appena 963 milioni di euro. In altri termini, il bio – che rappresenta il 14,5% della superficie agricola utilizzabile – riceve il 2,3% delle risorse europee: anche solo in termini puramente aritmetici, senza calcolare il contributo del biologico alla difesa dell’ambiente e della salute, circa sei volte meno di quanto gli spetterebbe. Se ai dati dei fondi europei si aggiunge il cofinanziamento nazionale per l’agricoltura, pari a circa 21 miliardi, il risultato rimane praticamente invariato: su un totale di fondi europei e italiani di circa 62,5 miliardi, la parte che va al biologico è di 1,8 miliardi, il 2,9% delle risorse.

«In altre parole – ha detto Maria Grazia Mammuccini di FederBio – gli italiani e gli europei in generale pagano per sostenere pratiche agricole che alla fine si ritorcono contro l’ambiente e contro la loro salute, a partire da quella degli agricoltori stessi. Inoltre, non è il modello agricolo ad alto impatto ambientale a farsi carico della tutela degli ecosistemi con cui interagisce, ma sono gli operatori del biologico a sopportare i costi prodotti dall’inquinamento causato dalla chimica di sintesi: il costo della certificazione; il costo della burocrazia (ancora più alto che per gli agricoltori convenzionali); il costo della maggiore quantità di lavoro necessaria a produrre in maniera efficace e a proteggere il raccolto dai parassiti , senza ricorso a concimi di sintesi e diserbanti; il costo della fascia di rispetto tra campi convenzionali e campi biologici».

Difficile calcolare con esattezza quali siano i carichi economici totali che gravano sugli agricoltori biologici. Solo per la certificazione, il costo da sostenere da parte dell’agricoltore in caso di prima notifica è pari a circa 2.790 euro, mentre per il mantenimento annuale il costo è di poco inferiore ai 1.000, se si prende in esame una azienda biologica media, con una dimensione di circa 28 ettari. Altro elemento da aggiungere a un conto complessivo impossibile da sintetizzare, la maggior incidenza del costo del lavoro nei campi bio: vale il 30% in più che nell’agricoltura convenzionale. Maggiori costi per la tutela ambientale e sociale a cui non corrisponde un maggiore aiuto, ma una sostanziale penalizzazione a livello di incentivi.
Eppure, l’impatto economico dell’inquinamento da pesticidi è ormai documentato da una serie di studi e ricerche internazionali. In termini complessivi, una ricerca USA (Pimentel, 2005) valuta i costi derivati dall’uso dei pesticidi – spese sanitarie, perdita di produttività, perdita di biodiversità, costi per il disinquinamento del suolo e delle acque – in circa 10 miliardi di dollari l’anno nei soli Stati Uniti.

Dal punto di vista strettamente sanitario, secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità complessivamente nel mondo si registrano oltre 26 milioni di casi di avvelenamento da pesticidi all’anno e 258.000 decessi. In pratica 71.232 persone ogni giorno – più o meno gli stessi abitanti di una città come Pavia – restano intossicate in maniera acuta dai pesticidi e 706 persone muoiono (Prüss et al., 2011). Uno studio europeo del 2015 ha poi valutato che l’esposizione prenatale a organofosfati (composti base di molti pesticidi ed erbicidi) fa perdere ogni anno 13 milioni di punti di quoziente intellettivo e provoca 59.300 casi di ritardo mentale, con un costo economico valutabile da un minimo di 146 miliardi di euro a un massimo di 194 miliardi all’anno: all’incirca l’1% del PIL dell’Unione europea. Nel 2017 un’ulteriore valutazione ha confermato la stima di 194 miliardi di euro l’anno in Europa per danni cognitivi per esposizione ai soli pesticidi organofosfati e ha sottolineato che tali costi sono comunque sottostimati perché tengono conto delle disabilità intellettive ma non delle disfunzioni cognitive meno gravi.

Paradossalmente l’agricoltura industrializzata che utilizza chimica di sintesi figura sia tra gli imputati  che tra le vittime del cambiamento climatico in atto. Secondo il quinto rapporto dell’IPCC, il panel di esperti ONU, le anomalie climatiche potranno provocare una riduzione della produttività agricola su scala globale compresa tra il 9 e il 21%, da qui al 2050. D’altra parte, l’agricoltura viene ritenuta responsabile dell’11% delle emissioni di gas serra a livello globale. La gestione convenzionale dei campi ha fatto sì che terreni coltivati e pascoli abbiano perso tra il 25 e il 75% del carbonio che contenevano (liberando gas serra). I terreni organici, invece, svolgono un ruolo di assorbimento che può arrivare a circa mezza tonnellata di carbonio per ettaro l’anno. Il potenziale tecnico complessivo del sequestro di carbonio nei terreni degli ecosistemi agricoli è quindi compreso tra 1,2 e 3,1 miliardi di tonnellate di carbonio all’anno, una quantità che corrisponde a 27 volte le emissioni italiane di CO2 del 2016. In generale, l’agricoltura chimica richiede maggiori quantità di energia e particolarmente di idrocarburi. Secondo i dati pubblicati dal Rodale Institute nel 2011, i sistemi di agricoltura biologica utilizzano il 45% in meno di energia rispetto a quelli convenzionali e producono il 40% in meno di gas serra rispetto all’agricoltura basata su metodi convenzionali.

Non ultimo, nella lista dei problemi sollevati dall’uso intensivo di chimica nei campi, quello dell’impatto sugli ecosistemi naturali e sulle stesse specie animali. Qualche dato per tutti: uno studio Usa del 2014 (Environmental and Economic Costs of the Application of Pesticides) ha valutato in 284 milioni di dollari l’anno il solo danno diretto legato alla scomparsa delle api e degli altri insetti impollinatori. Lo sterminio di altri insetti e dei parassiti predatori naturali degli insetti e degli organismi dannosi costa invece, complessivamente, 520 milioni di dollari l’anno, considerando anche la spesa del ricorso aggiuntivo a trattamenti fitosanitari.  Per quanto riguarda gli uccelli, al massiccio e diffuso impiego di insetticidi e diserbanti è riconosciuto un ruolo decisivo nella contrazione numerica delle popolazioni nel corso degli ultimi decenni: tra le specie che vivono in contesto agricolo, uno studio della Lipu – Lega italiana protezione uccelli ha indicato upupa e torcicollo come le specie a maggiore vulnerabilità. Autore: Associazioni del progetto “Cambia la Terra”

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