Negli ultimi anni si è assistito a nuovi impulsi che hanno favorito la diffusione di sistemi di agricoltura conservativa in risicoltura. Motivazioni ambientali, quali la riduzione dei consumi energetici, delle emissioni di CO2, della biodiversità e della fertilità dei suoli, hanno indotto infatti le Regioni risicole (Lombardia e Piemonte principalmente) ad inserire le lavorazioni conservative tra le misure agro-ambientali sostenute con il Programma di Sviluppo Rurale. Tra queste indubbiamente la tecnica della “minima lavorazione” del terreno sembra esser stata adottata apprezzata e/o criticata più di tante altre. Ne parla anche la Relazione2018 dell’Ente Nazionale Risi, soffermandosi sulle tecniche studiate per fronteggiare l’impoverimento di nutrienti provocato nel terreno dalla monosuccessione e da caratteristiche dei suoli a prevalente tessitura grossolana, oltre a un generale disaccoppiamento da ogni forma di attività zootecnica, tutte caratteristiche peculiari della risicoltura padana. Secondo i tecnici dell’Ente Risi «la minima lavorazione si configura come tecnica in grado di ridurre i costi di produzione e gli input energetici necessari», anche se, «al fine di ottenere risultati produttivi comparabili con l’aratura convenzionale si rendono necessarie indicazioni sul piano di concimazione azotato da adottare».
Concimi su minima lavorazione
«Per sfruttare al meglio questa tecnica, è utile adottare una pratica colturale leggermente diversa – spiegano i tecnici – da quella consolidata negli anni in cui l’aratura costituiva la principale lavorazione del terreno, osservano i tecnici. «In particolare le concimazioni devono essere riviste rispetto agli standard aziendali. Nelle prove condotte nella corrente annata agraria, sono state confrontate parcelle concimate con la normale dose aziendale di azoto con altre aventi un apporto di tale nutriente maggiorato. Gli incrementi sono stati ponderati in base alla varietà di riso coltivata, al tipo di semina adottata, al potenziale apporto di elementi nutritivi derivanti da una cover crop eventualmente presente in campo ed al tipo di terreno». Nella relazione si parla di un incremento di dose in +20% (Olcenengo – VC) e +30% (Rosate – PV) sul totale delle unità fertilizzanti azotate, con semina interrata a file e in sommersione. «È infatti stato dimostrato come la tecnica di minima lavorazione sia applicabile ad entrambi – spiega l’Ente Risi -. Le prove di concimazione con surplus di azoto su minima lavorazione hanno fornito risultati differenti.
I risultati
A Olcenengo (VC), le parcelle in cui sono state apportate 237 unità/ ha (pari al 20% in più) di azoto hanno ottenuto una produzione sostanzialmente identica al testimone aziendale che ha previsto la distribuzione di 198 unità/ha di azoto. In questa località l’aumento della concimazione è stato ripartito per singolo intervento fertilizzante, distribuendo la maggiorazione nel corso della coltivazione. A Rosate (MI) le parcelle testimone hanno mostrato una maggiore produzione rispetto a quelle con surplus di azoto a causa di un maggiore attacco di brusone in queste ultime. La varietà coltivata è stata Carnaroli, che è sensibile al brusone, e le condizioni meteorologiche sono state particolarmente favorevoli allo sviluppo della malattia. Tuttavia, anche in questa località la differenza produttiva non è risultata statisticamente differente. Non è stato possibile trebbiare la prova di Oristano a causa delle continue piogge».
L’esperienza degli agricoltori
Questo dice la scienza, ma cosa sperimentano gli agricoltori? Bisogna sapere che la “minima lavorazione” del terreno è una via di mezzo tra l’aratura e la semina diretta (o su sodo), effettuata per mezzo di un erpice munito di denti fissi o elastici in grado di smuovere il terreno compatto senza provocare formazione di suole di lavorazione fino a una profondità massima di 15 cm e capaci di non causare inversione degli strati di terreno, anche con lo scopo di garantire una copertura minima del suolo in ogni momento dell’anno. Sulle stoppie, appena raccolto il riso, tempo permettendo, si effettua un primo passaggio autunnale, perché il gelo invernale possa agire sulle zolle affinandole e la paglia possa degradarsi, in primavera si attua un secondo passaggio, seguito da rullatura entro marzo, che normalmente è sufficiente per preparare un buon letto di semina. Le varietà più idonee a questa pratica risultano quelle di taglia bassa, che producono poca paglia in trebbiatura ed allettano meno (lunghi B, superfini), mentre per quanto riguarda i terreni, quelli più sabbiosi sono preferibili. Sul fronte agronomico, la meccanica agraria ha messo a disposizione soluzioni che hanno gradualmente permesso di migliorare gli standard produttivi e gli aspetti operativi di queste tecniche.
Un bel risparmio
Dal punto di vista economico, tali tecniche consentono un significativo risparmio dovuto al minor numero di interventi colturali, oltre che una notevole velocità di svolgimento delle operazioni di preparazione dei letti di semina nella primavera con un conseguente risparmio complessivo di manodopera. Esse mirano alla prevenzione dell’erosione e alla conservazione della sostanza organica del suolo, la prima favorita da una maggiore capacità di quest’ultimo di trattenere l’acqua, la seconda promossa dalla maggiore stabilizzazione della sostanza organica. Viene rilevato, inoltre, come nei sistemi gestiti con lavorazioni conservative si noti un aumento della biodiversità e della complessità ecologica.
Un terreno più affinato
Quali sono i vantaggi riscontrabili sul campo dopo l’adozione della minima lavorazione? Mario Cucchi, risicoltore nel Pavese ne enuncia alcuni che ha personalmente riscontrato: «innanzitutto si risparmiano ore di lavoro e litri di gasolio, perché con due passaggi il letto di semina è pronto. Poi il terreno risulta più affinato e aumenta anno dopo anno il tasso di sostanza organica. Inoltre abbiamo notato che con la minima lavorazione il terreno assorbe meno acqua, e per una coltura sommersa come il riso non è un vantaggio trascurabile. Tra le particolari accortezze da segnalare – continua – con la minima lavorazione è opportuno fare un diserbo antigerminello. Se si ara le infestanti escono dopo l’emergenza del riso, mentre con la minima le infestanti anticipano la nascita».
Ma non è tutto rose e fiori
Tuttavia non tutti hanno ottenuto i risultati sperati, Massimo Gatti, conduttore di un azienda risicola a Valle Lomellina (Pv), ci racconta che «una lavorazione superficiale del terreno (5-15 cm) non consente di interrate in modo adeguato la paglia, per cui si viene a creare un eccessivo accumulo, con l’aggravante della fermentazione. Questo risvolto non permette al riso di radicare in modo adeguato. Nel Biologico poi tale pratica è fortemente sconsigliata in quanto le malerbe, essendo superficiali, imperversano immediatamente e non vi è modo di utilizzare fitofarmaci per contenerle, anche se abolendo l’aratura risulta diminuire la comparsa di Crodo. A ciclo concluso i costi per tenere pulito il terreno dalle infestanti risultano aggravare quindi di un 30-40%. Dal punto di vista produttivo e’ riscontrabile già dal primo anno una diminuzione della resa di circa un 30%, a seguire un calo annuale fisso di un 10% sull’intero appezzamento». (Scarica la Relazione2018 dell’Ente Risi) Autore: Martina Fasani