Da un vecchio archivio della Società Agraria di Lombardia conservato a Milano emerge una vera e propria “chicca” per gli appassionati di risicoltura: su una pagina del “Bullettino dell’Agricoltura” –storico “house organ” della Società Agraria- del 12 marzo 1948 si trova un articolo dal titolo “La nuova varietà di riso Carnaroli alla prova pratica”, che fornisce una interessantissima nota tecnica sulle prime coltivazioni del riso chiamato “prof. Carnaroli”, ottenuto per incrocio tra “Vialone” e “Lencino”. Si tratta di un elemento documentale che induce a molteplici osservazioni e riflessioni: sia a livello storico che a livello tecnico-agronomico e socio-economico. Che dovrebbe inoltre far meditare sull’importanza che riveste lo studio della storia, anche della nostra agricoltura, per evitare di cadere in errori e facili pregiudizi magari indotti da mode e speculazioni del momento.
Qualche nota storica
La prima osservazione riguarda l’origine del nome della varietà. Dal contesto si potrebbe presumere che il costitutore Ettore De Vecchi avesse forse un debito di riconoscenza col prof. Emiliano Carnaroli, allora commissario dell’Ente Nazionale Risi? Un’ipotesi che contrasta con la tesi ammantata di leggenda secondo cui il nome della varietà deriverebbe da quello di un semplice camparo acquaiolo che collaborava con particolare dedizione alla conduzione dell’azienda dei De Vecchi in quel di Paullo (MI), come si legge in una pubblicazione del Paullese Stefano Rosa. Da notare anche che nel testo dell’articolo si afferma che “la varietà venne costituita nove anni or sono dal sig. Ettore De Vecchi, tanto modesto quanto valente, già noto tra i risicoltori per aver creato il “Vialone”…”. Un dato che farebbe risalire al 1939 anziché al 1945, come riportato da altri documenti, l’effettiva costituzione della storica varietà. Non sembrano sussistere dubbi, viceversa, sulla prima iscrizione della varietà Carnaroli al Registro Varietale (avvenuta solo con DM 14 maggio 1974, con responsabile della conservazione in purezza Achille De Vecchi di Paullo) e la reiscrizione del 21 luglio 1983 con responsabilità della conservazione in purezza trasferita all’Ente Nazionale Risi (dopo che, con atto del 18 maggio 1983, Achille De Vecchi, cambiando ordinamento colturale all’azienda, aveva chiesto che i compiti di conservazione fossero assegnati all’ENR). Molta acqua è passata sotto i ponti dal 1948, visto che a fianco dell’articolo ne troviamo un altro che magnifica la sarchiatura del grano per la lotta alle infestanti, vicino ad una pubblicità della Montecatini a favore di insetticidi a base di DDT. Ma la varietà Carnaroli è rimasta viva, ed ancora coltivata, anche se probabilmente avrà subito qualche deriva genetica, nonostante una conservazione in purezza fatta attentamente. Il metodo della fila-pannocchia dipende dalla scelta del conservatore, che valuta quali piante presentino le caratteristiche migliori, dalle quali ricavare le pannocchie da riprodurre. La varietà è comunque sopravvissuta con alterne fortune fino ai nostri giorni, occupando un segmento importante del mercato, pur essendo insidiata da nuove varietà con prodotto similare, autorizzato dalla legge attuale ad essere commercializzato con il nome “Carnaroli”.
Una innovazione agronomica
Ai tempi la varietà era decantata per la produttività, intorno ai 50 q.li/ha, per la resistenza al brusone (evidentemente affievolita nel tempo dalla comparsa di ceppi mutati e più virulenti del patogeno), e per le allora buone rese medie alla lavorazione: 54% di granelli interi e 15% di rotture. Veniva anche apprezzata per la resistenza all’allettamento (aspetto che induce qualche dubbio sulla “rusticità” delle varietà che oggi qualcuno chiamerebbe “antiche” coltivate all’epoca). Se ne ha conferma dalla lettura della nota tecnica pubblicata sul “Bullettino dell’agricoltura” del 1948 che riporta i dati produttivi di alcune coltivazioni di Carnaroli. In quelle che potremmo definire come prime prove sperimentali realizzate in aziende della pianura milanese e pavese (comuni di Carpiano, Bascapè e Santa Cristina) la varietà Carnaroli nel 1947 aveva fatto registrare secondo l’articolo produzioni granellari di 48, 50 e 55 q.li per ettaro rispettivamente (da notare che la produzione maggiore si era ottenuta utilizzando la tecnica del trapianto invece della semina diretta). Nella nota tecnica si osserva inoltre che nel comune di Salussola (VC) ben 200 giornate vercellesi (poco meno di 80 ha) sarebbero state investite a Carnaroli; un dato particolarmente rilevante se si pensa che nel 1948 il Carnaroli sarebbe stato coltivato su appena 154 ha complessivi su tutto il territorio nazionale. La nota tecnica pubblicata sul “Bullettino dell’Agricoltura” riferisce anche circa il profilo qualitativo fatto registrare dal Carnaroli che nelle tre prove avrebbe fatto registrare rispettivamente rendimenti alla lavorazione industriale di 56 grani interi e 14 granelli rotti (70 globale), 53+15 (68) e 54+14 (68). Da notare che secondo i parametri dell’epoca la resa commerciale di riferimento per il mercato dei risi “fini superiori” era di 49 grani interi e 17 rotture (66 globale). Un dato da cui discende l’osservazione circa il fatto che il miglioramento delle agrotecniche (fertilizzazioni mirate, adeguata protezione fitosanitaria), delle attrezzature per la raccolta (che all’epoca veniva effettuata prevalentemente mediante mietitura in campo e trebbiatura in azienda a “punto fisso”, con rischio di perdere le cariossidi di migliore qualità nei trasferimenti) e delle attrezzature e modalità di essiccazione, abbiano contribuito ad un netto miglioramento del profilo qualitativo delle nostre produzioni risicole (con buona pace dei nostalgici di presunti “antichi saperi ed antichi sapori” poco invidiabili). L’articolo del “Bullettino” si conclude auspicando un “brillante avvenire” per il Carnaroli, definito “tipico riso da esportazione che sarà certamente molto ricercato all’estero…”. Le cose sono andate un poco diversamente, se si pensa che ancora alla fine degli anni’70 del secolo scorso il Carnaroli era coltivato su meno di 500 ettari e che l’affermazione ed il vero “boom” della varietà (e dei suoi similari costituiti nel frattempo) si realizza solo dopo il 2000 in concomitanza di un progressivo riassetto delle quote di mercato nell’ambito dei risi “da risotto” preferenzialmente consumati sul mercato nazionale.
Analizzando il grafico dell’evoluzione delle superfici seminate, ricavato dal database dell’Ente Nazionale Risi, si osserva (linea nera) che negli anni ’80 la varietà era ridotta al lumicino. L’ottima qualità culinaria non riusciva a controbilanciarne i difetti. La resistenza al brusone era scomparsa, a causa dell’evoluzione del parassita fungino Pyricularia Orizae, che aveva trovato il modo di attaccarla duramente. Anche la resistenza all’allettamento, decantata ai tempi, non era sufficiente per un’agevole raccolta con le mietitrebbiatrici, tanto meno quelle dell’epoca, azionate da motori poco potenti. Il notevole balzo di superficie avvenne a partire dal 1998, data di registrazione del fungicida Triciclazolo, che ha risolto i problemi del brusone, almeno fino al 2107, anno del suo divieto. Le campagne 2018 e ‘19 hanno “graziato”, con il loro andamento climatico, il nostro riso da forti attacchi fungini, ma per ora il Triciclazolo non sembra aver trovato sostituti di uguale efficienza. Il rischio di campagne meno favorevoli è sempre in agguato. Nel 2004 sono comparse le prime varietà similari. Da quest’anno, la linea nera del grafico rappresenta il totale delle varietà commercializzabili col nome Carnaroli, quella rossa il solo Carnaroli, la verde la somma dei similari. La comparsa dei similari, insieme ai grandi investimenti pubblicitari fatti dall’industria risiera, ha modificato le dinamiche del mercato. Per questo abbiamo focalizzato il grafico precedente sugli ultimi 13 anni, aggiungendo la linea azzurra che rappresenta il prezzo massimo del risone a metà gennaio, come rilevato dai listini delle Camere di Commercio. Come noto, il prezzo del risone delle diverse varietà e le scorte ancora in magazzino in quel periodo dell’anno incidono molto sulle scelte di semina dei risicoltori: un comportamento poco comprensibile da parte degli agronomi, forse interpretabile da qualche sociologo.
Se ne può comunque dedurre che il Carnaroli abbia un suo gruppo di coltivatori affezionati, vista la variabilità delle semine ridotta rispetto a quella molto più ampia dei similari. Il mercato complessivo del gruppo (linea di tendenza tratteggiata) ha visto il raddoppio delle superfici seminate, quindi dei consumi, negli ultimi 13 anni.
Il raffronto economico
Un ultimo confronto, rispetto al 1948, riguarda qualità e prezzi. Allora, come si apprende dalla rilevazione dei prezzi alla Granaria di Milano del marzo 1948, veniva quotato sul mercato solo ed unicamente il riso “Originario”: un dato che dovrebbe far riflettere sulle abitudini alimentari dell’epoca e sul relativo reale livello di “biodiversità” (termine oggi tanto abusato e spesso arbitrariamente riferito con nostalgia ad un “buon tempo antico” che tanto buono non era…). La quotazione del riso tondo “Originario” era di 5.400 L./q.le. Secondo l’articolo riportato sul “Bullettino dell’Agricoltura” il Carnaroli ne spuntava 7.929, il 45% circa in più. Abbiamo provato a “tradurre” i prezzi di mercato dei risoni del 1948 in prezzi attuali. Per farlo si sono utilizzati i coefficienti di rivalutazione monetaria forniti dall’ISTAT, praticando inoltre la conversione da lira italiana ad euro al valore di cambio ufficiale di 1936,27 lire per un euro. Ne risulta che se i prezzi di mercato del risone avessero seguito in maniera lineare i coefficienti di rivalutazione monetaria il valore “attualizzato” del Carnaroli dovrebbe essere di 151,89 euro per 100 kg (!) e quello del risone tondo generico assimilabile all’ Originario dell’epoca dovrebbe essere di 103,44 euro (!). Il dato da un certo punto di vista non deve stupire: non fa che confermare l’assunto della ben nota “legge di Engel” ed al tempo stesso dimostra che l’innovazione tecnologica ed il conseguente incremento della produttività dei fattori sono elementi fondamentali ed irrinunciabili per mantenere una produzione agricola economicamente sostenibile nel tempo a fronte dell’ineludibile tendenza del consumatore a destinare quote decrescenti di reddito ai consumi alimentari al crescere del reddito stesso. Per spiegare le differenze attuali, le elaborazioni storiche di Antonio Finassi ci possono aiutare: nel 1952, rilevazione più vicina al 1948, servivano 771 ore annue di lavoro per coltivare un ettaro di risaia, ricavandone in media 47,5 q.li, per cui i 50 del Carnaroli erano apprezzati, rappresentando un evidente vantaggio differenziale. L’operaio agricolo riceveva come salario il valore di 19,7 kg di risone al giorno. Oggi, col risone a 40 centesimi al kg, sarebbero 7,88 € al giorno, meno di 1 euro/ora (un dato che dovrebbe far riflettere sul miglioramento delle condizioni socio-economiche dei lavoratori e braccianti agricoli in Italia, ma anche sulla competitività delle agricolture dei Paesi socialmente avanzati rispetto a quelle di Paesi in cui il lavoro non ha adeguata dignità e retribuzione). Il lavoro annuo di un operaio bastava alla coltivazione di 2,3 ha. La popolazione addetta all’agricoltura in Italia, scesa al 40% nel 1940, crebbe molto durante la guerra, e nel 1948 ne risentiva ancora gli effetti, per cui era intorno al 50% (Università di Pisa). In quegli anni, la percentuale media di reddito assorbito dall’acquisto del cibo era del 42,3%. (ISTAT). Si può ipotizzare che fosse molto superiore per i salariati agricoli, che percepivano le retribuzioni più basse. Queste condizioni differiscono ampiamente da quelle attuali, quando il risone Carnaroli viene commercializzato al prezzo massimo di 43 € al q.le,(all’incirca come il risone comune) con rese di riso intero superiori in media del 4% rispetto alle sue origini. Con buona pace di chi sogna il ritorno al passato, con l’uso dei cavalli e l’abolizione della chimica, di fertilizzanti, fitofarmaci ed erbicidi. Autori:
Flavio Barozzi, Società Agraria di Lombardia, Accademia dei Georgofili
Giuseppe Sarasso, Accademia di Agricoltura di Torino, Accademia dei Georgofili