In occasione della giornata mondiale dell’alimentazione il MuLSA (Museo Lombardo di Storia dell’Agricoltura), in collaborazione con Società Agraria di Lombardia, Accademia dei Georgofili – Sezione Nord Ovest e Fondazione Morando Bolognini, ha organizzato un convegno dal titolo: “Penurie, carestie e sicurezze alimentari”, svoltosi nel Castello Bolognini di Sant’Angelo Lodigiano, prestigiosa sede che ospita il Museo del Pane, dove sono illustrati i successi del genetista Nazareno Strampelli nella genetica del grano, ed anche quelli di Novello Novelli nella coltivazione del riso. Molto denso il programma della giornata, rivolto in mattinata alle limitazioni di cibo che hanno afflitto l’umanità dalle sue origini, e nel pomeriggio alla sfida che l’incremento della popolazione mondiale pone all’agricoltura. Essendo impossibile proporre un completo resoconto, che lasciamo alla auspicabile pubblicazione degli atti, siamo costretti ad operare una scelta tra le molteplici considerazioni che gli undici esperti relatori hanno esposto al folto uditorio.
Iniziamo ricordando che gli ominidi nostri progenitori erano arboricoli e vivevano dei frutti della foresta, dove si riparavano dai predatori. Secondo Gaetano Forni la specie umana è stata modellata dalle carenze alimentari, a partire dal periodo di siccità verificatosi 15 milioni di anni fa, che ha spinto gli ominidi dalle foreste rinsecchite alla savana, costringendoli a diventare bipedi ed anche a trasformarsi in predatori carnivori. Forni ha ricordato le teorie di Carl Gustav Yung, psichiatra ed antropologo del ‘900, che ritengono la storia dell’uomo registrata nell’inconscio umano, a partire dall’idea del paradiso terrestre, o dell’età dell’oro, acquisita nel periodo felice vissuto nelle foreste, seguita da quella delle carestie sperimentate durante l’era della savana, e mai terminata. Anche la spinta dei piromani verso gli incendi sarebbe un atavico ricordo del lungo periodo, per altro ancora vivo in Brasile e nel Borneo, nel quale gli agricoltori hanno incendiato foreste e savane per sgomberare i terreni da coltivare.
Gli altri relatori hanno poi descritto, per ogni epoca, le carestie succedutesi nella storia. Columella, commentando la dipendenza dell’impero Romano e soprattutto dell’Urbe dai frumenti importati dal Nord Africa, pur in presenza di terreni latini idonei alla produzione, lamentava che i patrizi romani ritenessero l’agricoltura un’arte umile, e censurava«i proprietari che affidano il lavoro agricolo agli schiavi, in un sistema che presta più attenzione ai cuochi che agli agricoltori». Prendiamo ad esempio la carestia di Milano del 1628, magistralmente descritta da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi, archetipo delle cause e degli effetti più comuni tra tutte quelle illustrate. Anomalie climatiche favorirono l’espandersi di fitopatie, con drastiche riduzioni delle produzioni. L’annona e le difficoltà di trasporto ostacolarono l’approvvigionamento in territori lontani non colpiti dalle avversità climatiche e fitopatologiche; il calmieramento dei prezzi causò speculazioni ed accaparramenti trasformando la penuria in carestia. Questa produsse sommosse (assalto ai fornai) ed epidemia (la peste).
Flavio Barozzi, moderatore della sezione mattutina dei lavori, ha ricordato che molte carestie sono state generate dai mutamenti climatici da sempre avvenuti, e dall’attività dei parassiti delle piante, che in funzione dell’andamento climatico si facevano più virulenti. Alcune delle più rilevanti sono state causate dall’uomo mediante politiche agrarie di nazionalizzazione dei terreni e di programmazione centralizzata. Proprio nel centenario della rivoluzione d’ottobre, bisognerebbe ricordare che l’URSS di Stalin, negli anni 20 e 30 del ‘900, aveva sposato le teorie antiscientifiche (la vernalizzazione) di Lysenko , che definiva “borghesi” ed “occidentali” le conoscenze genetiche inaugurate da Mendel due secoli prima e poi sviluppate dalla scienza ufficiale. Questo aggravò le già disastrose politiche dirigistiche sull’agricoltura concretizzatesi con i famigerati piani quinquennali di sviluppo, che hanno portato all’Unione Sovietica una terribile carestia, con la morte di 6-8 milioni di persone. Ancor più nefasta la rivoluzione culturale di Mao, anche questa improntata all’applicazione dell’ideologia all’agricoltura, che causò 43 milioni di morti nel periodo 1959-61. Sempre Barozzi ha affermato che «quasi sempre tra i fattori predisponenti o deflagranti delle carestie ci sono state l’arretratezza scientifica e l’inadeguatezza tecnologica, che assumono un ruolo di costante negativa in questi fenomeni». La sezione pomeridiana, moderata da Osvaldo Failla, ha riguardato invece il presente ed il futuro dell’alimentazione dell’umanità in continua espansione.
Tommaso Maggiore, esperto di genetica, ha citato Carlin Petrini, che in un’intervista al Corriere della Sera del 22 maggio 2016 affermò: «la scienza non è un sistema compiuto e completo di conoscenza della realtà del mondo e dell’uomo». Sicuramente la scienza non ha finito di esplorare il mondo, ma ignorandone le conquiste, volendo affidarsi solo agli “antichi saperi”, bisogna prendere atto che la loro applicazione ha portato la rassegnazione dei contadini ad una alimentazione molto parca, espressa nel detto «un contadino mangia un pollo solo quando o il pollo o il contadino sono moribondi». Lo stesso Relatore ha ricordato che i progressi della scienza e della tecnologia agricola, laddove applicati saggiamente, hanno permesso, dal 1960 ad oggi, di sestuplicare le produzioni per ettaro dei cereali, grazie a genetica, chimica dei fertilizzanti e fitofarmaci, agronomia e meccanizzazione, quest’ultima responsabile anche della liberazione dal lavoro agricolo di ampi strati di popolazione che hanno potuto così dedicarsi al soddisfacimento di altri bisogni della società. Per il futuro, potremo anche aggiungere i benefici ottenibili dalle tecnologie informatiche della Precision Farming. Il continuo espandersi della popolazione non consente di arrestare gli sforzi per incrementare le produzioni per ettaro, visto che non è più possibile ampliare le terre coltivabili, come è stato fatto nel nord America nel XIX secolo, con la conquista del West, a scapito dei nativi. Non possiamo dimenticare i grandi risultati ottenuti nella lotta alla fame: la percentuale di persone sottoalimentate è scesa dal 40% nel 1950 al 12% attuale, senza ridurre però significativamente il numero totale dei sottoalimentati, visto che la popolazione mondiale da allora è cresciuta da 2,5 a 7,5 miliardi, occupando parte delle terre arabili con case ed infrastrutture per il trasporto e le industrie. Ha concluso con queste parole: «L’innovazione scientifica e tecnologica in agricoltura è l’unica soluzione per incrementare e stabilizzare le produzioni e per contenere le avversità di ogni genere. Proporre, come si fa da qualche parte, pratiche agricole abbandonate, condannate dalla storia, dalla scienza, dalla sicurezza alimentare e dall’economia è una vera truffa all’intelligenza».
Giuseppe Bertoni, esperto di allevamento animale, ha affermato che il problema non è solo quantitativo, ma anche qualitativo. Oltre ad avere disponibilità sufficiente di carboidrati, forniti dai cereali, servono anche proteine nobili, specialmente in età scolare, per assicurare un corretto sviluppo fisico ed intellettivo delle popolazioni. Ha citato in merito esperienze effettuate in alcuni Paesi in via di sviluppo, che hanno dimostrato che l’aggiunta di quantitativi adeguati di latte, uova e carne alla dieta dei bambini ne incrementa significativamente le capacità intellettive. Non è saggio quindi rinunciare ai prodotti animali, visto che questi si nutrono delle erbe prodotte dai pascoli, che nel mondo occupano una superficie addirittura superiore a quella dei terreni coltivabili, oltre ad utilizzare sottoprodotti non commestibili per l’uomo. Il bilancio della disponibilità alimentare globale ne uscirebbe gravemente penalizzato in disponibilità ed in qualità.
Le conclusioni più significative della giornata possono essere tratte dalla relazione di Flavio Barozzi: il problema di fondo, che costituisce lo scenario in cui si è sviluppato il Convegno, resta quello di garantire per il futuro un sistema agricolo ed agroalimentare in grado di produrre materie prime, cibo e beni di consumo a prezzi accettabili e conformi a standard qualitativi prestabiliti, con un razionale sistema di scorte, ed un sistema commerciale in grado di soddisfare con continuità ed in modo economico le esigenze dei consumatori finali. La liberalizzazione degli scambi, ed i moderni mezzi di trasporto, che da un lato permettono di rimediare alle anomalie climatiche verificatesi in alcune parti del mondo molto più facilmente rispetto a quanto accadeva durante le antiche carestie, dall’altro hanno un valore strategico negativo. In caso di conflitti che limitino i commerci, oppure di penurie globali che verrebbero ampliate dalla finanza speculativa, la carenza di alimenti (in Italia importiamo il 50% del cibo necessario) potrebbe portarci a sperimentare tristi scenari che pensavamo eliminati.
Il dibattito mediatico italiano verte oggi sulla ricerca di sempre più elevati standard di qualità intrinseca delle produzioni agroalimentari, talora basata su criteri oggettivi e su parametri misurabili: presenza di elementi nutritivi utili, assenza di contaminanti, che non sono solo residui di prodotti fitosanitari, ma anche metalli pesanti, micotossine, nitrati, allergeni, ecc.). Si ricercano alimenti “senza” alcune sostanze nutritive come glutine, lattosio, grassi, talora giustificate da esigenze reali, altre volte da disinformazione. Più spesso, spinti da una pubblicità martellante, si assiste ad una spasmodica ricerca di cibi più o meno “etici”, “edonistici” e talora “modaioli”, con atteggiamenti che ricordano la frase di Columella riguardante la maggiore attenzione prestata ai cuochi piuttosto che all’agricoltura. In particolare segnaliamo la ricerca di produzioni “biologiche” che, giova ricordarlo, hanno il “pregio” di avere una ridotta produzione per ettaro, e derivano da un processo produttivo, più o meno certificato e controllato, ma che non forniscono di per sé un prodotto intrinsecamente ed apoditticamente superiore ad un altro.
Anche la mitizzazione del “naturale” ha i suoi limiti: l’aveva intuito Giacomo Leopardi, che scriveva nelle sue operette morali-elogio degli uccelli: «una grandissima parte di quello che noi chiamiamo naturale, non è; anzi è piuttosto artificiale: come a dire, i campi lavorati, gli alberi e le piante educate e poste in ordine, i fiumi stretti infra certi termini e indirizzati a certo corso, e cose simili, non hanno quello stato né quella sembianza che avrebbero naturalmente. In modo che la vista di ogni paese abitato da qualunque generazione di uomini civili, eziandio non considerando le città, e tutti gli altri luoghi dove gli uomini si riducono a stare insieme; è cosa artificiata, e diversa molto da quella che sarebbe in natura». Come si potrà ignorare a lungo la realtà, senza subirne le conseguenze? Autore: Giuseppe Sarasso