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L’ANGELO DELLE RISAIE

da | 13 Set 2020 | Non solo riso

Cinquant’anni passati a vedere tra le risaie quello che un occhio anche esperto non riesce a vedere, ad andare oltre la conoscenza tecnica e l’esperienza, per dare agli altri la possibilità di produrre al meglio. E’ la storia di Angelo Ramaiola, risicoltore e per decenni in forza all’Ente nazionale Risi. Una esperienza partita da Pieve Albignola, un paese di poco più di 800 abitanti, nel lembo più meridionale della Lomellina, direttamente affacciato sul “Grande Fiume”. Il padre agricoltore, Angelo Ramaiola entrò nel 1970 in forza al servizio di assistenza tecnica dell’Ente nazionale Risi. Erano anni della grande transizione dell’Ente che puntava ad un ampliamento del proprio ruolo, con un nuovo e stretto rapporto con la base dei risicoltori. Anni che anche vedevano una trasformazione dei connotati della aziende agricole lomelline, dove si passava dalla chiusura della stalla alla monocoltura risicola.  «Proprio allora – racconta Angelo Ramaiola – l’Ente avviò un vero arruolamento di tecnici giovani, tutti periti agrari provenienti in gran parte dell’Istituto Gallini di Voghera, dove mi ero diplomato. Era un gruppo di credo una quindicina di persone. Io aveva partecipato ad un concorso dell’Ente ed ero stato assunto. L’organizzazione era capillare, con il territorio diviso in aree precise affidate ognuna ad un tecnico. Io Avevo la responsabilità della zona di Mortara, Vigevano, Gambolò, Cassolnovo. Allora i laboratori dell’Ente erano a Mortara e i campi sperimentali nel vercellese. A capo del settore ricerca  da pochi anni c’era Giorgio Baldi».

Le aziende agricole diventarono risicole, le stalle si trasformarono in magazzini o in rimesse dei trattorie il frumento cominciò la sua “Caporetto”, schiacciato da prezzi insostenibili. Sul mercato arrivavano ogni anno nuovi formulati diserbanti, sempre più efficaci e sempre più selettivi. Soprattutto arrivavano i primi giavonicidi, come il Propanile, per combattere la più temibile infestante della risaia. Visto che allora, almeno in Lomellina, il crodo restava un perfetto sconosciuto. O quasi. «Ci occupavano soprattutto di malerbe e concimazione – continua Ramaiola – dato che l’interesse per le malattie fungine era molto ridotto. Comunque le aziende praticavano ancore la rotazione, oppure provenivano da anni di rotazione colturale. La tecnica era completamente diversa dall’attuale, perché il livellamento dei terreni era meno accurato, non essendoci le livellatrici laser, inoltre la semina era in acqua e proprio lo stato d’acqua era uno strumento di controllo delle infestanti».

Nel 1978 Angelo Ramaiola passa dall’assistenza tecnica al delicatissimo settore della conservazione in purezza delle varietà dell’Ente Nazionale Risi. Un lavoro da certosino, diviso in una parte “burocratica” di controllo di moltiplicatori e aziende moltiplicatrici delle sementi e in una parte pratica di selezione del nucleo delle diverse varietà, per giungere al seme prebase e al base, da avviare alla produzione di semente su grande scala per la distribuzione alle aziende risicole. Un meccanismo piuttosto complesso che si basava sulla regola del “200”, con 200 pannocchie selezionale che davano origine a 200 file di riso che venivano valutate con estrema attenzione per mantenere soltanto le file che presentavano perfettamente i caratteri della varietà. E che, in una fase successiva, avrebbero dato origine al seme di base. Un lavoro che portò Ramaiola a fare la spola tra i campi sperimentali e la sede centrale dell’Ente Nazionale Risi, nel centro di Milano. Un incarico che durò fino al pensionamento, nel 1994. «C’erano varietà cosiddette “vecchie” e nuove – racconta Ramaiola – cito tra le altre quelle più diffuse, come Arborio, Baldo, Europa, Sant’Andrea, Carnaroli, Ringo, poi le nuove Selenio, Argo, Cripto ed Elio. Un lavoro di grande responsabilità e di altrettanta soddisfazione, dove ci si confrontava e si lavorava con grande impegno ed entusiasmo». Il percorso professionale nell’Ente segue di pari passo l’intera evoluzione delle risaie, dai primi rudimentali trattori con tanto di sovrapattini e trazione singola, fino alle livellatrici laser, alle superpotenze e alle attrezzature elettroniche.

Ma anche in risaia si stava meglio quando si stava peggio? Ovvero era più facile o più difficile coltivare riso 50 o 30 anni fa? «C’erano luci e ombre – chiarisce Angelo Ramaiola – il terreno proveniente da rotazione presentava una minore aggressione delle infestanti, il riso crodo non era certo un problema, ma si combattevano altre avversità, come ad esempio le alghe, che dilagavano nella vera coltivazione in sommersione. Cosa che oggi non accade perché la semina in acqua segue come sommersione la semina interrata, cioè i giorni di sommersione dopo la semina in acqua sono ben pochi. Certamente c’erano molti più erbicidi disponibili per il controllo delle malerbe, basterebbe citare il ben noto Propanile, che spesso poteva risolvere tutti i problemi di giavone, oppure il Molinate. Oggi si fa ben più fatica a controllare le infestanti. Ma si deve ricordare che le attrezzature erano ben più rudimentali. Pensiamo che oggi ci sono botti di almeno 1500 litri di capacità, mentre allora persino i contoterzisti raramente superavano la capacità di 200 – 300 litri per i contenitori delle miscele diserbanti, con trattori a trazione singola. Oggi ci si chiede come fosse possibile coltivare riso con quelle attrezzature. Eppure lo si faceva».  Inoltre la produzioni ad ettaro erano ben più ridotte. Resta il fatto che il dilemma monocoltura – rotazione ha certamente accompagnato la storia di mezzo secolo di risaie. Tanto che Angelo Ramaiola ricorda una frase che Renzo Franzo, presidente di Ente Risi e della Coldiretti vercellese fino agli anni ’80, amava ripetere tra i suoi amici più fidati: »Sono preoccupato per il degrado culturale che l’avvento della monocoltura rischia di portare in futuro tra i miei agricoltori».  Perché allora ogni agricoltore doveva saper essere non solo risicoltore, ma anche tecnico di stalla, esperto in semina di mais e frumento, gestore di prati e marcite. E l’elettronica e il computer al massimo potevano sembrare… una parolaccia. Autore: Giovanni Rossi

 

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