La deliberazione della Giunta Regionale Piemonte del 22 dicembre 2016, n. 15-4452, avrebbe voluto aggiornare la guida all’accertamento dei requisiti delle figure professionali in agricoltura di cui alla DGR n. 107-1659 del 28 novembre 2005; ma la toppa è peggio del buco. Alla base di quel provvedimento vi era, e vi è, la necessità di assegnare agli agricoltori lo status di Coltivatore Diretto o Imprenditore Agricolo Professionale in base alla definizione stessa del concetto di Imprenditorialità: il soggetto deve svolgere un’attività produttiva finalizzata alla commercializzazione e non all’autoconsumo. Nella delibera si definiscono quindi i parametri minimi di superficie utilizzata, in base alle specie coltivate: l’agricoltore deve dedicare almeno il 50% del proprio tempo di lavoro e ricavare dall’attività agricola almeno il 50% del proprio reddito complessivo. A completamento del tutto, in appendice al provvedimento, viene pubblicata una tabella, che prevede la prestazione minima annua di 104 giornate lavorative convenzionali, sulle 287 disponibili nell’anno. Peccato che tale tabella sia frutto di un affrettato copia e incolla, che cioè sia stata presa da quella che doveva essere aggiornata. Probabilmente il calcolo che sta alla base della prima risale a quando gli agricoltori e gli operai non facevano festa il sabato e dovevano rinunciare o alle festività infrasettimanali o a parte delle ferie per coprire le 287 giornate…
Ecco perché diciamo che l’approccio della Giunta Regionale piemontese è pericolosamente distante dalla realtà attuale, anche quando si riferisce alle giornate annue ritenute necessarie per coltivare un ettaro di risaia: otto per le aziende grandi (64 ore) e 15 per quelle piccole (120 ore). In base a tali calcoli, chi coltiva sette ettari di risaia può fregiarsi del titolo di coltivatore diretto, o Imprenditore Agricolo Professionale: basta un po’ di esperienza per valutare che questa persona deve avere una famiglia ben parsimoniosa per sopravvivere con il reddito di sette ettari di riso, al quale è permesso aggiungere solo un altro reddito ricavato da eventuali altri cespiti, che non deve però superare il primo, per non perdere la qualifica. Insomma, questi calcoli paiono riferiti a mezzo secolo fa, anche se permettono la permanenza nella categoria ad un’ampia schiera di interessati. Parrà una cosa bella, ma è il contrario della professionalizzazione del settore tante volte auspicata e proclamata. Il rovescio della medaglia riguarda anche le modalità di lotta al lavoro in nero praticate dall’INPS, che spesso cercano di sanzionare gli imprenditori che non pagano i contributi in funzione dello smisurato di numero di giornate ipotizzate in tabella, ritenute il minimo indispensabile…
Ora vediamo su cosa poggiano le nostre perplessità. In merito al fabbisogno lavorativo delle risaie, va detto, si trovano in letteratura dei dati più recenti, se non aggiornatissimi, in quanto risalenti al decennio passato. Con le attrezzature attuali ne servono anche di meno. Nel libro “Il Riso” della collana “coltura e cultura” di Bayer Cropscience” (Bologna, 2008) a pag. 427 si legge: “Questa evoluzione si compendia col termine “meccanizzazione”, un processo dapprima lento, poi accelerato ed infine travolgente. Il lavoro umano si è ridotto dalle 1200 ore per ettaro del 1924 alle attuali 20 ore per ettaro. Grazie alla meccanizzazione ed alla chimica, oggi un solo operaio può coltivare oltre 70 ettari di superficie e produrre più di 500 tonnellate di risone da cui si ricavano 300 tonnellate di riso alimentare….” Esiste anche una ricerca scientifica che indica il fabbisogno di ore lavorative: le elaborazioni prodotte nel 2005 dal progetto Rice-Net, iniziativa di scambio tecnologico e culturale tra le principali risicolture europee e quella indiana, promosso dal DIVAPRA dell’Università di Torino, producono i dati riferiti ad aziende medie rappresentati dal grafico in colore rosso della tabella 1 (elaborazioni Finassi A. e Sarasso G., 2005).
Tabella 1 – Ore di lavoro annue necessarie a coltivare un ettaro di risaia, e costo del lavoro per ha espresso in tonnellate di risone (1924-2005).
Altra analisi è stata pubblicata dall’Associazione Laureati in Scienze Agrarie di Vercelli e Biella, “il bilancio dell’azienda risicola”, risalente al 2016, che si trova al sito http://www.vc.camcom.gov.it/Page/t02/view_html?idp=1173.
La stima viene fatta per tre tipologie aziendali, con risultati da 16 a 23 ore /ha. I dati sopra elencati sconfessano le tabelle regionali, che dal grafico sopra pubblicato risultano risalire alla realtà degli anni ’60, e potrebbero servire come orientamento quando l’INPS vuole sanzionare agricoltori ritenuti evasori per l’utilizzo di operai in nero, o che intendono cancellare un coadiuvante per raggiunta l’età pensionabile, senza sostituirlo. Non sono questioni di lana caprina, come tanti agricoltori sanno. Molte volte è successo negli ultimi anni che alcuni funzionari dell’INPS si riferissero ai dati obsoleti della delibera 15-4452 per appioppare multe salatissime, che poi sono state abolite davanti ai tribunali, creando però perdite di tempo e costi agli agricoltori, e danni erariali per l’Ente che si è trovato a dover pagare le spese giudiziarie. Tra l’altro si ricorda che è illegale utilizzare qualsiasi tabella per emettere sanzioni in materia: la giurisprudenza, chiamata ad applicare la definizione di coltivatore diretto ex art. 6 legge 3 maggio 1982 n. 203, ha ripetutamente chiarito che la forza lavorativa del coltivatore diretto “non è quella in astratto disponibile, ma quella in concreto impiegata nella coltivazione del fondo” (cfr. Cass. 2 novembre 1990 n. 10546; 13 dicembre 1990 n. 11827). Pertanto in questi casi serve sempre una perizia che, considerando le condizioni dei terreni, le attrezzature e le tecnologie utilizzate, certifichi il fabbisogno di ore lavorative della singola azienda. Auspichiamo comunque che i solerti funzionari regionali, anche se in smart working, e lo stesso assessore Protopapa, trovino tempo e modo di occuparsi dell’incauta tabella. Autore: Giuseppe Sarasso, agronomo