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LA GIORNATA DEL RINGRAZIAMENTO

da | 9 Nov 2014 | La curiosità, Riso in cucina

imagesOARIT5VEOggi, domenica 9 novembre, la Chiesa cattolica celebra la 64esima giornata nazionale del Ringraziamento. Ogni anno, quest’iniziativa rinnova un’antica tradizione delle campagne e lancia un messaggio al mondo rurale. Ieri, a Milano, nel corso di un convegno nazionale, la Conferenza episcopale italiana ha illustrato il suo punto di vista sui temi della produzione e distribuzione del cibo. Questa posizione si può leggere nel messaggio dei vescovi italiani per la Giornata (http://www.chiesacattolica.it/documenti/2014/10

/00017345_messaggio_per_la_64_giornata_nazionale_de.html). Di seguito, vi proponiamo invece un’interessante riflessione di un biblista laico, Luca Moscatelli, che ci pare interessante per riscoprire le radici veterotestamentarie del rapporto tra l’uomo e la terra che coltiva.

 

LA BENEDIZIONE PER I FRUTTI DELLA TERRA

NEL MONDO BIBLICO

 

Luca Moscatelli

1. Una premessa

Gesù, narrano i vangeli, fa spesso riferimento al cibo e alla bevanda. Pensiamo anche soltanto alla richiesta del pane al centro della preghiera che ci ha insegnato, il Padrenostro. Egli si mostra attento alla fame e alla sete, propria e altrui. Perché? Cosa c’entra una cosa tanto banale con la rivelazione di Dio?

 

Fame e sete sono forme originarie della mancanza, del bisogno. L’esperienza della mancanza produce angoscia e paura; quella della sazietà beatitudine e speranza. E’ perché siamo stati accolti e accuditi decentemente da qualcuno nel nostro venire al mondo (e nel nostro esserci fino ad oggi) che nutriamo sufficiente fiducia per vivere. Il bisogno ci insegna che abbiamo bisogno di «altro» e di «altri» per vivere, ma che non possiamo disporne a meno di asservire o distruggere. Dobbiamo poter contare in qualche modo su una alterità benevolente. Per questo insegniamo ai nostri figli ciò che è buono e insieme il linguaggio della «preghiera», cioè dello scambio gratuito (per favore, grazie, prego, scusa, che bello! che buono! ecc.): si vive di doni altrui.

 

Scrive G. C. Pagazzi che fame e sete «non smettono di ricordare agli umani che sono figli e figlie, gente che vive perché riceve, prima ancora di poter dare. La fame e la sete in-segnano [almeno due volte al giorno, aggiungo io] verità tanto semplici da passare inosservate, ma altrettanto imprescindibili per vivere la vita umana in tutta la sua profondità»[1]. La prima di queste verità è che la vita è un dono e che l’atteggiamento fondamentale capace di umanizzare l’uomo è la gratitudine. La seconda è che esiste una realtà fuori me della quale ho bisogno per vivere: il mio destino è intrecciato a quello del mondo. La terza e decisiva verità è che il «mondo» è abbastanza buono e ben disposto nei miei confronti.

 

2. La benedizione

Nel linguaggio biblico dire che il mondo è abbastanza buono vuol dire che la vita, che mi precede, mi pervade e mi attornia, è benedetta; e viceversa, che tutto ciò che vive è segno di (in-segna la) benedizione. Insomma: benedizione è vita; vita è benedizione.

 

«Benedire / Benedizione (baràk / berakà» ha il significato fondamentale di «trasmettere forza salvifica / salutare». Come vedremo, benedire vuol dire rendere fecondo, capace di vita e di comunicare vita.

 

A parte alcuni strati arcaici, dove ancora la benedizione / maledizione è concepita superstiziosamente come una forza «magica» che dipende da formule (i cui residui, per altro, arrivano ai giorni nostri…), nella bibbia la fonte della benedizione / vita è Dio. Quando Dio benedice fa vivere; quando l’uomo benedice riconosce a Dio il suo essere fonte di benedizione. Gli uomini e le donne (sappiano o no di essere di Dio) possono effondere intorno a sé la benedizione ricevuta, se con gratitudine fanno gesti di cura per la vita. Solo la gratitudine, e la gioiosa responsabilità che comporta, può essere fonte di vera generosità e solidarietà.

 

3. Istruiti dallo stupore

Genesi 1 «racconta» la creazione come opera gratuita che lascia stupito – se così si può dire – Dio stesso. Gli fa esclamare sette volte: «ki-tov! che buono / bello!». Secondo l’autore biblico, dunque, e fin dalla prima pagina, tutto ciò che esiste è dono buono. Dovrebbe suscitare stupore grato ed essere prima di tutto oggetto di contemplazione.

 

Ecco poi come viene narrata la creazione dell’umano (maschio e femmina):

26Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: dòmini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”. 27E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò. 28Dio li benedisse e Dio disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra”. 29Dio disse: “Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra, e ogni albero fruttifero che produce seme: saranno il vostro cibo. 30A tutti gli animali selvatici, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde”. E così avvenne. 31Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona. E fu sera e fu mattina: sesto giorno. (Genesi 1)

 

La prima parola del Creatore all’umano è una benedizione che consiste nella possibilità di generare. La seconda parola concede il dominio dell’umano sul creato. La terza parola autorizza a mangiare predisponendo il cibo. Fecondità e cibo sono dunque i grandi segni della benedizione divina. La necessità del dominio insinua l’evidenza che in molti modi la realtà «animale» resiste e insidia l’umano, fuori e dentro di lui (anche l’animale si riproduce e mangia!). Essa deve essere ricondotta a servizio dell’uomo ma secondo lo stile divino, «a sua immagine e somiglianza», ovvero nel segno dell’amore (cura) per la vita. Non a caso una delle immagini di Dio sarà quella del pastore, cioè di colui che predispone il pasto per far vivere ciò che è affidato alla sua cura. Insomma, è questa cura a rendere umano l’uomo.

 

4. Coltivare e custodire

Il «dominio» sul creato – ci dice la seconda pagina della bibbia – va esercitato, a imitazione di Dio, nella forma mite / non distruttiva della coltivazione e della custodia. Più letteralmente, il testo parla di «servire» (‘abàd) e «osservare» (shamàr). Servire è il verbo del lavoro, ma è anche quello della liturgia. Osservare vuol dire custodire, ma si dice anche dell’osservanza della parola / del comandamento di Dio. Il giardino affidato all’Adam è dunque da servire e custodire quasi fosse una parola di Dio. Una parola silenziosa ma eloquente, come si legge nel Salmo 19:

2 I cieli narrano la gloria di Dio,

l’opera delle sue mani annuncia il firmamento.

3 Il giorno al giorno ne affida il racconto

e la notte alla notte ne trasmette notizia.

4 Senza linguaggio, senza parole,

senza che si oda la loro voce,

5 per tutta la terra si diffonde il loro annuncio

e ai confini del mondo il loro messaggio.

 

L’uomo lavora:

20 Stendi le tenebre e viene la notte:

in essa si aggirano tutte le bestie della foresta;

21 ruggiscono i giovani leoni in cerca di preda

e chiedono a Dio il loro cibo.

22 Sorge il sole: si ritirano

e si accovacciano nelle loro tane.

23 Allora l’uomo esce per il suo lavoro,

per la sua fatica fino a sera. (Salmo 104)

 

ma il dono lo precede, lo accompagna e lo segue. Senza il sostegno di Dio l’opera delle nostre mani non avrà consistenza:

16 Si manifesti ai tuoi servi la tua opera

e il tuo splendore ai loro figli.

17 Sia su di noi la dolcezza del Signore, nostro Dio:

rendi salda per noi l’opera delle nostre mani,

l’opera delle nostre mani rendi salda. (Salmo 90)

 

Chi entra nella logica creaturale del dono, accoglierà da bravo figlio il cibo come benedizione e benedirà Dio come Padre sollecito della vita. Proprio per questo, per coltivare e custodire davvero il giardino affidatogli, l’umano dovrà porre però un limite alla sua fame, cioè accettare di vivere l’esperienza del bisogno in fiduciosa attesa, quale attestazione del riconoscimento che da Dio, e non dalle proprie mani, viene la vita.

 

8Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. 9Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male. (…) 15Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse. 16Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, 17ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire”. (Genesi 2)

 

Il peccato / violenza / male, come forma dell’idolatrica indisponibilità all’affidamento (all’alterità), verrà a compromettere e oscurare l’evidenza grata e incantata del dono della vita. Da quel momento e per sempre, la fiducia necessaria per vivere richiederà anche una decisione e a tratti una lotta (per l’uomo, ma anche per Dio!), per restituire – o «disseppellire», come scrive Etty Hillesum – al mondo della vita l’evidenza del suo carattere di benedizione.

 

Il rito dell’offerta delle primizie, la preghiera per la benedizione dei campi e delle greggi, la benedizione dei pasti, sempre saranno segnati dal rischio dell’idolatria e dovranno essere ricondotti ogni volta alla loro vera intenzione: essere riconoscimento grato del dono di Dio e insieme della responsabilità della cura e della condivisione nei confronti di chi ha fame.

 

A questo proposito è importante almeno ricordare che le grandi feste ebraiche hanno un’origine agricola che non perderanno mai del tutto, anche quando saranno ormai trasformate nel memoriale dei grandi eventi della storia di salvezza di Israele. Durante l’anno lunare avevano il ruolo di supplicare e ringraziare per la benedizione divina (cioè per la fecondità di greggi e campi). Tuttavia la supplica stessa si appoggiava sul ricordo delle molteplici benedizioni ricevute e attendeva dalla libertà del Signore il suo adempimento. In ogni caso la festa avrà sempre a che fare con digiuni, sacrifici animali (e vegetali), cibo offerto e condiviso, banchetti… e sarà una festa in onore di JHWH se sgorgherà dalla gratitudine e si esprimerà nel ringraziamento e nell’attenzione per «la vedova, l’orfano e lo straniero» (cf Deuteronomio 10,16-19[2]).

 

5. La buona notizia

Gesù viene ad annunciare il regno di Dio. E’ l’annuncio, portato a compimento, della cura paterna di Dio. Se Dio è padre, ed è padre di tutti, tutti sono fratelli e sorelle. Non stupisce che per dire questa «buona notizia» il Maestro di Nazaret faccia riferimento al cibo, al cibo donato e condiviso. Ancor più di prima (penso alla storia di Giuseppe e i suoi fratelli; Genesi 37-50), intorno al cibo e alla tavola si farà la fraternità. Per questo la fame può far perdere la fiducia nella paternità di Dio; provvedere all’affamato vuol dire allora sostenere la sua fiducia nella vita e restituirlo alla speranza dei figli.

 

La bontà di Dio creatore resta indelebilmente scolpita nella bella pagina di Matteo 6, 24ss, che adesso leggeremo. Non si tratta di una «istigazione a delinquere» per pigri, anche perché in 2 Tessalonicesi 3,10 si legge: «questa [è la] regola: chi non vuol lavorare neppure mangi»; è piuttosto un invito a non lasciare che l’affanno per cibo e vestito travolga la vita e inclini all’ingiustizia di pensare soltanto a se stessi:

24Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza [Mammona, traduzione CEI precedente].

25Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? 26Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? 27E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? 28E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. 29Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede? 31Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. 32Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. 33Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. 34Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena.

 

D’altra parte, le immagini alle quali Gesù attinge per dire il regno di Dio – un regno dove nessuno è suddito, ma ognuno è unico come un re e una regina – non sono solo esempi per illustrare con efficacia un concetto. Nelle immagini che vengono usate, e che sono il risultato dell’osservazione della vita dei campi da parte del Maestro, Gesù vede all’opera la benedizione divina, e dunque rin-traccia il regno di Dio. Le parabole agricole sono emblematiche. A tal punto che quella del seminatore diventa la parabola delle parabole, il codice per decodificarle tutte:

2Insegnava loro molte cose con parabole e diceva loro nel suo insegnamento: 3“Ascoltate. Ecco, il seminatore uscì a seminare. 4Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. 5Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; e subito germogliò perché il terreno non era profondo, 6ma quando spuntò il sole, fu bruciata e, non avendo radici, seccò. 7Un’altra parte cadde tra i rovi, e i rovi crebbero, la soffocarono e non diede frutto. 8Altre parti caddero sul terreno buono e diedero frutto: spuntarono, crebbero e resero il trenta, il sessanta, il cento per uno”. 9E diceva: “Chi ha orecchi per ascoltare, ascolti!”.

10Quando poi furono da soli, quelli che erano intorno a lui insieme ai Dodici lo interrogavano sulle parabole. 11Ed egli diceva loro: “A voi è stato dato il mistero del regno di Dio; per quelli che sono fuori invece tutto avviene in parabole, 12affinché guardino, sì, ma non vedano, ascoltino, sì, ma non comprendano, perché non si convertano e venga loro perdonato “. 13E disse loro: “Non capite questa parabola, e come potrete comprendere tutte le parabole?

 

Potremmo parafrasare la finale così: «Se non restate stupiti davanti al “mistero” della vita che germoglia, come potrete capire il regno di Dio?». Ma chi ci può restituire questo incanto se non chi lavora la terra?

 

6. Gratitudine e benedizione

Mio nonno Carlo era un coltivatore diretto. Mio padre Angelo fece altro nella vita, ma non dimenticò mai le sue origini. Ovunque abbiamo abitato, sempre ha coltivato l’orto. La cosa non mi entusiasmava perché mi sollecitava a dargli una mano. Tuttavia oggi ricordo con piacere quelle fatiche e la bontà dei loro frutti. C’era poi un rituale, che ogni anno ci faceva sorridere (e adesso mi commuove). Dopo aver vangato, tracciato con ordine maniacale gli spazi, spianato la terra mossa e seminato, arrivava il momento: con un sorriso stupito il papà ci chiamava in giardino ad ammirare i primi germogli, indicandoci anzi il rigonfiamento della superficie là dove la piantina stava ancora per spuntare. Noi non ci stupivamo granché, se non per il suo stupore. Ricordarlo adesso, però, mi pare illumini la rivelazione biblica. E’ una delle eredità più preziose che mio padre mi abbia lasciato, il modo in cui ha restituito quello che aveva ricevuto[3]. Adesso tocca a noi restituire.

 

Siamo grati per la vita e per questa terra che sappiamo essere parte di noi, nostra parentela: «Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra» come cantava san Francesco d’Assisi. L’Adam è tratto dalla ’adamà, la terra coltivabile, e il suo nome dirà per sempre il legame che abbiamo con essa. Lavorare la terra in un certo modo, gioire del dono, procurare ad altri gioia, è assumere il ministero della benedizione / gratitudine che Dio affidò ad Abramo affinché in lui fossero benedette tutte le famiglie della terra (cf Genesi 12,1-4). Scrive san Paolo nella lettera ai Romani:

9La carità non sia ipocrita: detestate il male, attaccatevi al bene; 10amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda. 11Non siate pigri nel fare il bene, siate invece ferventi nello spirito; servite il Signore. 12Siate lieti nella speranza, costanti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera. 13Condividete le necessità dei santi; siate premurosi nell’ospitalità.

14Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite. 15Rallegratevi con quelli che sono nella gioia; piangete con quelli che sono nel pianto.

 

Se il nostro compito è la benedizione, chi procura il cibo con amore è in qualche modo ministro (=servitore!) del vangelo. E’ il mio augurio per voi. Accettatelo insieme al mio ringraziamento per aver ricevuto un importante apprendistato evangelico da un nonno e un papà contadini. Grazie

 

 



[1] Giovanni Cesare Pagazzi, La cucina del Risorto, EMI, Bologna 2014, p 19.

[2] «Circoncidete dunque il vostro cuore ostinato e non indurite più la vostra cervice; perché il Signore, vostro Dio, è il Dio degli dèi, il Signore dei signori, il Dio grande, forte e terribile, che non usa parzialità e non accetta regali, rende giustizia all’orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito. Amate dunque il forestiero, perché anche voi foste forestieri nella terra d’Egitto».

[3] Vedi Francesco Stoppa, La restituzione. Perché si è rotto il patto tra generazioni, Feltrinelli, Milano 2011.

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