A seguito dell’ultimatum austiaco del 23 Aprile 1859, che chiedeva la smobilitazione delle truppe Piemontesi e, al seguente rifiuto del Piemonte, il 29 Aprile 1859 con l’attraversamento del Ticino da parte dell’esercito austriaco, iniziava la Seconda Guerra di Indipendenza. Nel giro di pochi giorni, incontrando poca resistenza, l’esercito invasore raggiunge Mortara il 30 Aprile , Novara il 1 Maggio , e Vercelli il 2 Maggio. Seduto davanti alle memorie di famiglia, Piero Rondolino riflette insieme a noi: «Se il Conte di Cavour avesse avuto i problemi che hanno oggi i consorzi irrigui delle terre d’acqua, a causa della siccità, non esisterebbe l’Italia unita».
L’allagamento
Già, perchè, anche se pochi lo sanno, la vittoria della Seconda Guerra d’Indipendenza dipese dall’allagamento delle risaie. Allora, non si seminava in asciutta, tuttavia l’allagamento in questione fu ben altra cosa rispetto alla tradizionale sommissione. Era l’arma segreta con cui lo Stato Piemontese impedì l’avanzata austriaca verso Torino, che sarebbe risultata fatale per l’esito del conflitto e per il disegno unitario.
Il “laco”
In quei giorni decisivi, il governo, presieduto da Camillo Cavour, incaricò infatti l’Ingegner Carlo Noè di predisporre un piano di allagamento del territorio, sfruttando tutto il sistema idrico di servizio all’agricoltura già gestito dall’Associazione d’Irrigazione dell’Agro all’ Ovest del Sesia. Oltre alle risaie, già allagate in base ai calendari di coltivazione, la volontaria rottura di tutti i canali trasformò il territorio in un lago indistinto – un “laco” come dicevano gli austriaci -, dove cavalli e soldati austriaci finirono per impantanarsi e perdersi. Un vecchio proverbio vercellese recita: Al Gyulai l’à turnà ‘n drè / cun la pauta tacà i pé… Fu quel “laco” a fare la storia, a formare quella grande distesa di acqua che bloccava un grande esercito, non furono i re, gli imperatori o grandi generali; fu la gente comune, la gente di campagna, che allagò tutta la zona da Santhià a Crescentino: 450 chilometri quadrati, allagati da 39 milioni di metri cubi d’acqua, in soli cinque giorni. Un evento eccezionale, poco conosciuto: una bella pagina di storia.
Noè
Grande artefice dell’inondazione artificiale fu l’ingegnere Carlo Noè, responsabile dei regi canali demaniali e direttore poi del grande scavo del canale Cavour, costruito tutto a mano, in soli tre anni ( 1863-1866). Bastò che Cavour dicesse: «Caro Ingegnere, il Noè della Bibbia, salvò dalle acque il genere umano, a lei il compito di salvare la Patria per mezzo delle acque stesse».
Con un tempismo eccezionale, il 25 aprile si dava inizio al grande allagamento. Il problema più rilevante non era tanto l’inondazione ottenibile utilizzando i canali demaniali, ma il suo mantenimento, visto che andava ad interessare un terreno in costante pendenza per un’estensione di 22 chilometri, attraversato da fiumi e torrenti a rapido deflusso; bisognava anche tenere conto di una rapida inversione della situazione: vale a dire di un passaggio delle forze franco-piemontesi dalla difensiva all’offensiva, con un rapido prosciugamento delle terre allagate e del veloce ripristino delle strade. Infatti, mentre l’inondazione impedì all’esercito austriaco l’avanzata nei giorni 8 e 9 maggio, le prime avanguardie piemontesi poterono occupare Vercelli, provenienti in senso inverso, il 19 maggio. A tale proposito esiste una sola relazione, intitolata : «Delle artificiali inondazioni fra la Sesia e la Dora Baltea prodotte colle acque dei Canali Demaniali, con strategico intendimento, nel rompersi guerra dell’Austria contro il Piemonte sul finire dell’aprile 1859». Fu pubblicata integralmente nel 1960 dall’ing. Pietro Monti che la corredò di un commento tecnico.
Le operazioni
L’acqua usata nelle operazioni proveniva dal canale di Ivrea e dal Depretis (ex canale di Cigliano, ampliato un anno prima di due terzi della sua portata) e dal canale del Rotto. In tutto, come si è detto, di 90 metri cubi al minuto secondo; in quei giorni, inoltre, piovve a dirotto, con straripamenti di fiumi e torrenti. L’arteria idrica principale era il naviglio d’Ivrea, di 20 chilometri, dalla Rocca di Cigliano, fino a Santhià ( il cui territorio fu in parte allagato ). Per realizzare l’inondazione furono eretti degli sbarramenti trasversali sui canali, nei punti scelti da Noè. Prima vennero allagate le zone più basse, la zona di Crescentino, sfruttando le acque della roggia Camera che deriva dal Rotto, creando sbarramenti a valle, vicino al Po. Più a monte, venne sbarrato il naviletto di Saluggia e poi il naviglio di Ivrea e il Depretis. Successivamente venne sbarrato il Depretis, a monte di Santhià , causando lo straripamento dei vari canali secondari, tra cui il naviletto di Asigliano, che servì ottimamente per allagare i territori di Tronzano, Crova, Salasco, Sali, Lignana e Desana. Per ultima fu allagata la zona di Santhià e di San Germano, facendo ricorso agli sbarramenti sul naviglio di Ivrea e sul Depretis. Questi territori furono sommersi il 28 aprile: «appositamente gli ultimi – riporta Noè – da me riservati per dar passo ai Reggimenti di Cavalleria che da Vercelli dovevano ritirarsi, portandosi per San Germano, Santhià, Alice e Borgo d’Ale a Cigliano». Questa ritirata aveva luogo il giorno appresso, e poco dopo, l’inondazione col guasto della strada era ultimata ed ogni comunicazione interrotta. Rimaneva ancora intatta la ferrovia per Vercelli che serviva al Noè per sorvegliare le operazioni su di una macchina a vapore. Noè ordinò poi che fossero scalzate le traversine della ferrovia da San Germano a Saluggia e si provvide infine all’allagamento della vallata della Dora. Lavorando anche di notte, protetti da uno squadrone di Cavalleria, la gente dei campi eresse sbarramenti sui canali con chiuse di legno (paletti e tavolame), costipati con paglia di riso, terra sciolta o in sacchi e zolle erbose. Furono necessari 78 sbarramenti sui canali e innumerevoli furono le chiusure degli scarichi. Il personale, dapprima utilizzato a valle, veniva spostato a monte quando la zona era allagata. Tutto funzionò alla perfezione, grazie all’acqua.
La Colombara
Incrociamo lo sguardo di Rondolino: «Spesso l’orizzonte è alle nostre spalle, non si può sapere dove si va se non si guarda indietro da dove si è partiti; si parla di psicogenealogia nello spiegare il rapporto mio e dei miei antenati con l’acqua» ci dice l’inventore del riso “Acquerello”, il cui nome per l’appunto, mantiene proprio la stessa radice di “acqua”. Ci racconta come nel 1820 il Conte Solaro del Borgo, proprietario della Colombara, tenuta dei Rondolino (ereditata dal Marchese di Pianezza, Principe di Simiana), vendette il Naviglio di Ivrea allo Stato, riservandosi i diritti d’acqua conservati dai successivi proprietari, gli impresari edili Magnani di Biella, che divennero “acque ex perpetue”, ossia soggette a canone per Cesare Rondolino. La famiglia partecipò alla guerra: il 22/04/1859 in una lettera l’Ing. Noè invitava il Signor Giuseppe Gianoli (bisnonno di Piero) a tenersi pronto.
La lezione storica
Anche oggi è in corso una guerra, ma sull’acqua. «La situazione non è ancora drammatica – ci dice il patron dell’Acquerello – purché l’Enel rispetti la cosiddetta Legge Merli (fine anni ‘70), svuotando di conseguenza i bacini idroelettrici se necessario; la priorità della risorsa in caso di scarsità, secondo quanto accordato, è così ripartita dallo Stato: in primis l’uso civile, poi l’agricoltura ed infine l’uso industriale. Sarebbe da augurarsi che il 25 aprile 2019, 160 anni dopo l’allagamento delle risaie, non diventi famoso per la sconfitta dell’acqua». Autore: Martina Fasani