Si concludono in questi giorni le semine del riso e i dati confermano la crisi del settore, con una flessione di 15.000 ettari (dato ufficioso, in attesa delle rilevazioni dell’Ente Nazionale Risi), segno che il debole apprezzamento del risone in quest’ultimo scorcio di campagna non ha convinto i risicoltori. Un settore in crisi, in genere, rivede le proprie strategie e così ha fatto la risicoltura nazionale in questi anni, cercando sempre più spesso nel metodo biologico una via di fuga al crollo dei prezzi. I veri bio storcono il naso, ma le istituzioni pubbliche sono generose e le università non si tirano certo indietro. Presentando la sperimentazione per la introduzione in Italia del trapianto meccanico, a Sartirana, gli organizzatori hanno ammesso che «negli ultimi sette anni il prezzo del risone convenzionale è sceso del 25% mediamente mentre quelli del biologico sono aumentati in media del 64%. Il punto è che, nella risicoltura biologica, va risolto il problema della gestione delle infestanti». Questo, insomma, è il vero motivo per cui la Regione Lombardia avrebbe investito 400mila euro del proprio Psr nel trapianto meccanico del riso, un progetto che, dopo tre anni e tante speranze, cui abbiamo dato voce (leggi l’articolo pubblicato da Risoitaliano), non è riuscito a risolvere “il problema” ma ha creato al contrario numerose perplessità. Vogliamo dare voce anche a quelle.
Sulla carta, il trapianto meccanico offre molti vantaggi: piante più forti, risparmio d’acqua (ma non più della semina interrata a file), ciclo colturale più breve. Nella pratica, appena si esce dal vivaio e si trapianta in risaia iniziano i problemi. Quelli delle macchine: non si è ancora riusciti a trovare una soluzione per la sarchiatura e per la precisione della semina. Colpa di chi ha adattato le macchine giapponesi alla realtà italiana? Difficile dirlo, parlando di prototipi. Certamente, entrare con una sarchiatrice in un terreno fangoso è problematico: rischi di sradicare o schiacciare la vegetazione che vuoi proteggere e non eliminare quella che vuoi combattere. Nel “buon tempo antico” – ci racconta un risicoltore che ha assistito alle prove – si faceva un passaggio in acqua con “l’erpice di Cavour” che era una sorta di rullo che passava su tutta la vegetazione presente sfruttando un principio di selettività “meccanica” per cui il fusto del riso, relativamente elastico, seppure schiacciato si riprendeva, mentre quello delle infestanti, che allora erano soprattutto ciperacee dal fusto rigido, veniva tritato. In alternativa si usava la sarchiatrice “Cabrini e Mocchi” che poteva andare bene anche su semina diretta a porche con l’omonima seminatrice a file. In ogni caso si trattava di interventi “complementari” alla monda manuale, che restava l’intervento elettivo. Elettivo ma non risolutivo, se non veniva effettuato con tutti i crismi: i più anziani ricordando che quando si mondava le infestanti venivano passate di mano in mano e depositate nelle scoline (per questo un tempo ce n’era una ogni 8 metri) a foglie sotto e radici sopra, il tutto sommerso grazie all’altezza dell’acqua nella scolina. Ma non bastava; a fine monda gli operai dell’azienda passavano nelle scoline a ribaltare di nuovo le infestanti che avevano ricacciato, ad evitare che andassero a seme. All’inizio del ‘900, quando c’erano gli scioperi per migliori salari e per le otto ore, fu sviluppata una ricerca notevole per la semina a file e la sarchiatura manuale con moltissimi prototipi di zappe, che non approdò a nulla.
Orbene, per tornare a noi e al progetto in esame, si deve prendere atto che la sarchiatura in terreni non sommersi tende a mettere le radici in aria, che vengono seccate dal sole; in acqua quelle ricacciano beffardamente. Nell’esperimento lombardo, poi, pare che ci sia una criticità in più, legata alla modalità con cui vengono estirpate le piantine dal vivaio. Non meno importante è il problema delle infestanti sulla fila, dove la sarchiatrice non può operare, per non sradicare anche il riso: quelle più vicine al riso sono quelle che ovviamente fanno il maggior danno. Insomma, un problemaccio.
Un’altra criticità è data dalla necessità di superfici ampie per il vivaio e nella quantità di “blister” di riso da trapiantare: in Giappone, dove l’azienda media è 0,5 ha circa e si usano 150mila cespi in 340 tappetini movimentati da 3-4 persone per ogni ettaro, la gestione è relativamente agevole, ma è impensabile una tecnica simile su un’azienda italiana anche solo da 50-60 ha. L’altra criticità sta nella densità di trapianto: se si trapianta “fitto” non si riesce a fare una buona sarchiatura, mentre se si trapianta “rado” si rischia di non avere un investimento accettabile per la produzione. Infine, le varietà. Quelle che accestiscono tanto hanno maturazioni molto scalari e incomplete, con percentuali talora elevate di grana verde o granelli gessati.
Ma allora perché concentrare tanti sforzi sul trapianto meccanico se è una strada lunga e incerta per sconfiggere le infestanti del riso bio? La risposta può essere quella data pubblicamente dal coordinatore: «nella risicoltura biologica, va risolto il problema della gestione delle infestanti». Ma, ci chiediamo, quel “va” è tecnico o politico? Se è politico, è facile prevedere che, se i prezzi del riso biologico dovessero scendere, si affievolirebbe anche l’interesse per questa tecnica. Del resto, quest’anno alcune aziende hanno stracciato i contratti da 90 euro al quintale perchè arrivava prodotto d’importazione a 40 euro… Forse, prima di proseguire su questa strada andrebbe valutato anche il fatto che in Giappone, il Paese che maggiormente ispira questa ricerca, sono stati chiamati tecnici italiani per testare il passaggio dal trapianto alla semina diretta, in quanto la tecnica del trapianto meccanico ha costi eccessivi. Autore: Marco Sassi