Il Convegno organizzato da CICAP Lombardia in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano sul tema “L’Agricoltura del XXI secolo: produrre cibo in modo sostenibile per una umanità in continua crescita” svoltosi il 23 novembre presso la sede dell’Ateneo milanese in via Festa del Perdono ha rappresentato una preziosa occasione di confronto e di dibattito tra alcuni dei maggiori esperti del settore agricolo e del mondo scientifico italiano ed internazionale .
Le eccellenti relazioni e l’elevato livello della discussione hanno costituito un momento di arricchimento delle conoscenze per addetti e non addetti ai lavori, ma pure l’occasione per diverse riflessioni talvolta amare ed in qualche modo problematiche.
Il filo conduttore della discussione, delineato chiaramente da Dario Frisio, Ordinario di Economia Agraria presso L’Università degli Studi di Milano, è stato il dilemma di fondo determinato dall’incremento della popolazione a fronte di superfici coltivabili non modificabili (a meno di non ricorrere a deprecabili distruzioni di foreste ed habitat naturali). Un problema condizionato anche dal mutamento delle abitudini alimentari dovuto all’aumento della domanda di proteine conseguente al passaggio da alimentazione di sopravvivenza ad una più complessa e gratificante. Il caso italiano è in qualche modo paradigmatico, mostrando un cambiamento netto dei consumi nell’ultimo secolo, con un passaggio da una alimentazione poverissima, basata su frumento, mais e frutta secca, ad una in cui assumono ruoli rilevanti dapprima le proteine animali e poi l’ortofrutta, che sembra ripetersi a livello schematico in alcuni dei cosiddetti PVS. Un quadro complicato dai mutamenti sociali e culturali che si profilano -dovuti all’inurbamento della popolazione e soprattutto alla perdita della percezione della complessa realtà produttiva dell’agricoltura- e che inducono più di una preoccupazione.
Preoccupazioni acuite da due constatazioni inquietanti. La prima è connessa all’incremento della percentuale di popolazione sottonutrita registrato a livello mondiale a partire dal 2015, legato non solo alle situazioni croniche in alcune parti del mondo, ma anche a fenomeni acuti osservati in concomitanza con eventi bellici (Medio Oriente) o fenomeni di malgoverno e dittatura (Venezuela, ecc.). La seconda è connessa al rischio di trovare, soprattutto nei cosiddetti Paesi sviluppati, una quota significativa di popolazione (potenzialmente oltre 2 miliardi di individui a livello globale) ridotta in condizioni economiche tali da avere minori possibilità di accesso regolare al cibo se non a prezzi veramente contenuti.
Ulteriori elementi di riflessione sono emersi dall’eccellente relazione di Barbara Saracino dell’Università di Bologna, che ha illustrato i risultati del monitoraggio permanente sul rapporto tra cittadini e scienza curato dall’Osservatorio Scienza, Tecnologia e Società di cui è coordinatrice.
La relazione ha evidenziato un quadro per molti versi contraddittorio. Da un lato le ricerche statistico-sociologiche fanno emergere come la fiducia della popolazione nei confronti degli scienziati sia di poco superiore al 51%, ovvero un valore variamente interpretabile, e che rappresenta il classico bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Dall’altro risulta che il livello di credibilità degli scienziati è nettamente superiore a quello dei giornalisti (4% di fiducia) o a quello dei politici (relegati ad un miserrimo 1,6%). Dagli studi emerge pure una confortante apertura della popolazione verso la ricerca biotecnologica (61% di favorevoli e 39% di assolutamente contrari), ma anche la constatazione di come esista una relazione inversa tra i rischi reali e quelli percepiti dall’opinione pubblica. Un fenomeno probabilmente determinato dalla prevalenza a livello informativo di forme di comunicazione “terroristica” rispetto a quelle “positive” o “rassicuranti” (d’altro canto per qualcuno “una buona notizia non è una notizia…”).
Il gravissimo problema di fondo resta comunque legato alla percezione completamente distorta o inesistente della realtà produttiva dell’agricoltura da parte della grande maggioranza della popolazione, forse acuita da mezzi e campagne di comunicazione magari funzionali a fini commerciali e speculativi ma non certo a fini educativi o informativi.
La sessione mattutina, brillantemente coordinata da Donatello Sandroni, si è conclusa con il vivace confronto tra Angelo Moretto, direttore dell’International Centre for Pesticides and Health Risk Prevention dell’Ospedale “L. Sacco” di Milano, ed il prof. Paolo Vineis, docente di Epidemiologia Ambientale all’Imperial College di Londra, sul “caso glifosate”. Una vicenda che, senza entrare nel merito delle polemiche in atto, dovrebbe indurre a qualche riflessione sul metodo della “condanna per insufficienza di prove” e preoccupare tutti, compresi coloro che utilizzano questi sistemi, forse sottovalutando il rischio che si riproducano e ritorcano un giorno contro loro stessi.
La sessione pomeridiana ha permesso un interessante raffronto tra diverse tipologie di agricoltura (biologica, biodinamica ed integrata), certamente utile per illustrare -soprattutto ai non addetti ai lavori- alcuni aspetti non sempre adeguatamente conosciuti.
Uno di questi riguarda proprio l’agricoltura biodinamica. Sorvolando sulle note questioni circa la mancanza di evidenze scientifiche a supporto di “pratiche esoteriche” basate su “influssi astrali” e “corpi eterei”, colpisce il dato sulla superficie investita a biodinamico a livello mondiale: appena 171 mila ettari, ovvero meno del 75% della superficie coltivata a riso in Italia. Un dato così insignificante ed irrisorio (si tratta dello 0,00011% della superficie coltivata a livello mondiale) da far sorgere qualche interrogativo sulla straordinaria risonanza e lo sbalorditivo “rapporto peso/potenza” che questa pratica ha a livello comunicativo e politico-decisionale specie in Italia e nella “vecchia” e declinante Europa. Un risultato forse determinato dall’enorme potere economico-finanziario oltre che politico, editoriale e sociale che caratterizza i fautori del biodinamico e l’organizzazione multinazionale depositaria ed interprete esclusiva del “verbo” di Steiner.
Riflessioni più positive e propositive sono emerse dal confronto tra le tecniche della vera agricoltura biologica, ottimamente illustrate dal prof. Sergio Saia, docente presso l’Università Politecnica delle Marche ed esperto del settore “bio”, e quelle dell’agricoltura integrata, descritte con la consueta competenza e passione dall’amico Luigi Mariani. Un confronto dai toni pacati, che ha permesso di evidenziare dati oggettivi e condivisi. Partendo dall’osservazione della mancanza di una definizione tecnicamente univoca di “agricoltura biologica” (che consente, come Saia ha testualmente rilevato, una “ipocrisia normativa” particolarmente acuta nel nostro Paese) o dalla constatazione delle interazioni che esistono tra le agrotecniche (dalla gestione delle lavorazioni a quelle delle colture intercalari o alla gestione dei cicli dei nutrienti, specie di matrice organica), si è giunti a comprendere quanto la realtà agricola sia complessa e richieda corretti approcci multi e transdisciplinari.
Dalla esposizione della relazioni sono emersi dati di fatto in alcuni casi apparentemente contraddittori ma su cui i ricercatori indipendenti concordano.
Ad esempio che –con le attuali risorse genetiche, con le agrotecniche correnti, e senza ricorrere ad impossibili massicci aumenti di superficie coltivabile- l’agricoltura “biologica” non sarebbe in grado di soddisfare i fabbisogni alimentari della popolazione (ed anzi determinerebbe impatti ambientali maggiori sul piano delle emissioni –specialmente su riso- rispetto a quella impropriamente detta “convenzionale”, cfr. figura allegata tratta dalla relazione di Luigi Mariani).
Oppure che tutti i dati statistici concordano sulla costante riduzione nell’utilizzo di agrofarmaci nei Paesi sviluppati. Ma anche che il consumatore nazionale chiede alimenti di origine italiana, ed al tempo stesso critica o addirittura criminalizza l’agricoltura italiana e spesso si oppone all’innovazione (specie in campo biotecnologico) senza rendersi conto che così determina la decrescita qualitativa delle nostre produzioni e maggiore dipendenza alimentare dell’Italia dall’estero.
Dal convegno è risultato evidente che la risposta razionale alle sfide della sostenibilità consiste nell’integrare -senza pregiudizi e steccati ideologici- conoscenze e risorse intellettuali che sono comuni e trasversali a tutte le tipologie di produzione agricola e zootecnica.
Attuando inoltre un salto di qualità a livello mentale, che porti a valutare (come chi scrive da tempo sostiene senza alcun intento di contrapposizione, ma anzi con volontà rigorosamente propositiva) la sostanza delle cose, rappresentata dalla intrinseca qualità e sostenibilità dei “prodotti”, anziché fermarsi all’apparenza legata al transeunte appeal commerciale di “processi” più o meno seriamente certificati.
In quest’ottica la ricerca, la sperimentazione e l’innovazione avranno un ruolo fondamentale nel promuovere quella “intensificazione sostenibile” che è emersa come ricetta dalla tavola rotonda conclusiva, coordinata da Roberto Defez con la partecipazione di Antonio Boselli, presidente di Confagricoltura Lombardia, di Giorgio Basile di Isagro e di Pietro Foroni, assessore regionale al Territorio.
Perché ciò avvenga sarebbe essenziale ristabilire un corretto flusso informativo della società rispetto alla realtà produttiva dell’agricoltura (e non solo dell’agricoltura). Un flusso informativo oggi sempre più inquinato da “derive pseudoscientifiche” che trovano in alcuni strumenti di comunicazione di massa facile veicolo di diffusione.
Le vicende degli ultimi mesi non sono in tal senso particolarmente confortanti. Su Riso Italiano del 10 dicembre 2018 scrivevo “….il conflitto tra chi difende l’agricoltura come attività produttiva aperta al mercato ed integrata con l’ambiente attraverso l’innovazione e l’uso razionale delle tecnologie moderne, e chi vorrebbe farne una sorta di “riserva indiana” orientata ad una decrescita di improbabile felicità …. sarà al centro del dibattito dei prossimi mesi…” (https://www.risoitaliano.eu/rivoluzione-pac/ ). Temo di essere stato fin troppo facile profeta.
Eppure nell’apparente “guerra” in corso sarebbe opportuna una precisazione di fondo. Per sottolineare che coloro che propugnano un approccio razionale ed integrato alle problematiche della sostenibilità (tra cui chi scrive), sono portatori di valori “a favore” della scienza, della ricerca e dell’innovazione tecnologica, pur nella consapevolezza dei limiti che ogni attività umana può avere. Nel recente workshop promosso dalla Società Agraria di Lombardia sull’uso sostenibile dei prodotti fitosanitari il prof. Moretto ha ricordato -con socratica umiltà- che “la Scienza sa di non sapere”. Mi sia consentito aggiungere che le persone intelligenti sanno di non sapere, e per questo cercano di approfondire le conoscenze e di non affidarsi a pregiudizi, ideologie e verità rivelate. Per questo chi si approccia in maniera laica al metodo scientifico rispetta le altrui convinzioni e non si pone aprioristicamente ed ideologicamente “contro” qualcuno o qualcosa: sostiene il diritto di ciascuno a lavorare liberamente e non vuole imporre a nessuno modelli o metodi considerati arbitrariamente “virtuosi” dal Moloch di turno. Qui sta il divario -probabilmente incolmabile- rispetto a chi sostiene le posizioni del divieto, della proibizione e del “no” nei confronti di questo o quell’aspetto dello sviluppo economico, dell’equilibrio sociale, ed in ultima analisi degli stessi fondamenti delle Istituzioni e della cultura liberale dell’Occidente.
In quest’ottica l’acceso dibattito in corso sui temi della sostenibilità in agricoltura si inquadra in un più vasto dibattito sulle prospettive stesse dell’umanità. Prospettive che potranno essere più o meno positive in funzione della fiducia che si saprà riporre nell’innovazione ma anche nella tutela delle libertà individuali. Autore: Flavio Barozzi, Società Agraria di Lombardia