Nei momenti difficili che tutti stiamo attraversando a causa della pandemia da Covid-19 la priorità è quella di cercare di uscirne al più presto (ma temo non così presto) e possibilmente in posizione verticale. Gravi lutti hanno già colpito tutti noi, compreso il mondo agricolo e quello delle scienze agrarie (alla dolorosissima perdita dell’amico e maestro prof. Michele Stanca si è aggiunta nelle scorse ore quella del prof. Carlo Lorenzoni dell’Università di Padova). Dobbiamo mettere in atto tutte le misure di profilassi in attesa che la scienza metta a disposizione gli strumenti (per i quali potrebbe rivelarsi decisivo il supporto delle nuove biotecnologie anche di interesse agrario) per prevenire e debellare il virus.
Non è questo il momento delle polemiche e delle recriminazioni. Ma se e quando la tempesta sarà passata i cittadini dovrebbero avere il diritto ed il dovere di chiedere ad una classe dirigente che si sta rivelando in larga parte inadeguata, l’assunzione di responsabilità –probabilmente non solo politiche- per le inefficienze, le sottovalutazioni, le confusioni, le colpevoli presunzioni che hanno contribuito ad aggravare in Italia una situazione già di per sé difficile a livello mondiale.
Mentre tanti italiani si cimentano in opinabili manifestazioni canore dai balconi, altri più utilmente si interrogano sulla gravità della situazione, sulle conseguenze che dovremo sopportare a livello personale, economico, sociale, e su quello delle libertà civili. Lo fa un quotidiano caratterizzato da una linea editoriale improntata alla prudenza ed all’aplomb come “Avvenire” che paventa il rischio per cui i militari oggi per le strade ci restino in futuro per scopi diversi dall’emergenza, e non solo in Italia. Lo hanno fatto studiosi come Gilberto Corbellini ed Enrico Bucci che su Radio Radicale hanno evidenziato scenari potenzialmente pericolosi per le democrazie liberali ed i diritti fondamentali dell’individuo, oltre che per la stessa libertà di ricerca scientifica. Scenari che ricordano -più ancora che George Orwell- le cupe atmosfere di “Cecità” di Josè Saramago, ed il rischio che le emergenze siano strumentalizzate per instaurare regimi autoritari con il consenso ed addirittura l’invocazione del popolo.
Chi vive e lavora in campagna beneficia di norma di un “isolamento funzionale” apprezzabile non solo in tempi di coronavirus. Personalmente ho sempre trovato molto rilassante –a prescindere dall’emergenza in atto- la gradevolissima sensazione che si prova stando sul trattore sapendo che l’essere umano più vicino si trova a qualche chilometro di distanza. Oggi andare in campagna a lavorare è verosimilmente meno rischioso che affrontare il girone dantesco di una spesa al supermercato (assurdo limitarne gli orari di apertura, che probabilmente andrebbero invece estesi anche ad ore notturne per diluire nel tempo la numerosità degli accessi). Questo non giustifica comportamenti “leggeri”. Al contrario, bisogna cercare di essere estremamente prudenti e rispettosi delle poche misure di intervento di cui al momento disponiamo. Dopo l’ultimo discorso notturno del primo ministro diversi amici mi hanno chiamato per chiedere se andare a lavorare nei campi sia o meno un’attività “essenziale”. Non mi permetto di fare l’esegesi di un pensiero tanto istituzionalmente importante quanto imperscrutabile. Dico solo quanto sto facendo io: ho messo sul trattore un badile dall’impugnatura particolarmente lunga. Se qualcuno si azzarda ad avvicinarsi per contestarmi qualcosa lo prendo senza indugio a badilate. Così, giusto per mantenere la distanza di sicurezza. Incrociamo le dita, dunque, anche perché altri gesti di scongiuro di esclusiva competenza maschile non sono riferibili. Autore: Flavio Barozzi