I risicoltori non bruciano le stoppie per negligenza. Va detto, una volta per tutte, che alcune pratiche hanno un valore agronomico e non possono essere paragonate ai comportamenti delittuosi delle “terre dei fuochi”. Non a caso, esistono regole per la bruciatura delle stoppie: una determinata distanza (100 metri) dai centri abitati o dalle strade e determinate condizioni di vento cui badare obbligatoriamente. Chi non lo fa può essere multato, ma è improprio affermare che la bruciatura delle stoppie inquini come le attività urbane (riscaldamento) e industriali. Stupisce che un deputato preparato come Mirko Busto (M5S) si allinei alle mode sostenendo che la bruciatura delle stoppie influenzi il livello di polveri sottili e – addirittura – la mortalità dei residenti in Pianura Padana. Per non dire di Fratelli d’Italia, che invoca nel Vercellese il divieto assoluto.
Sorprende e soprattutto inquieta la solerzia con cui si spara sugli agricoltori – soprattutto a Vercelli – sorvolando sulle altri fonti d’inquinamento e citando dati rilevati non si sa come e non si sa dove, con l’intento evidentissimo di colpevolizzare un’intera categoria, rea soltanto di non godere di buona stampa e di rappresentare un obiettivo visibile, laddove le attività industriali si mimetizzano più facilmente dietro proprietà anonime e management impersonali, ma, spesso, inquinano ben di più di un campo di stoppie abbrustolite.
Ci pare meno ideologico, pur nella diversità di vedute che resta legittima, l’approccio della Lipu di Oristano – altra terra di riso e di stoppie -, la quale ha chiesto di vietare la combustione quando le condizioni meteorologiche sono sfavorevoli, quando in sostanza il vento è superiore ai 20 chilometri all’ora, e di pianificare gli abbruciamenti a livello territoriale e temporale e su limitate superfici, in modo da evitare il propagarsi di grandi quantità di fumo nei centri abitati. Un risicoltore sardo, Gianni Meli, ha spiegato che «bisogna bruciare solo quando il vento è a nostro favore. È vero anche però che quest’anno gli abbruciamenti sono diminuiti. Stiamo regalando molta paglia agli allevatori. In questo modo liberiamo i campi evitando di bruciare. Pensare all’interramento è impossibile, ci sono stoppie alte anche due metri». E il suo collega Corrado Sanna: «Su cento ettari di risaie io ne brucio appena il 15 per cento. Purtroppo quando il fumo va verso i centri abitati è perché la direzione del vento cambia improvvisamente».
Per rimettere la questione nei suoi giusti termini, abbiamo chiesto a un esperto come l’agronomo Giuseppe Sarasso perché i contadini bruciano le stoppie di riso, quali accorgimenti prendono e se sia possibile e quando adottare delle pratiche diverse. «Ragionare per grandi aree in agricoltura è impossibile – spiega Sarasso (foto piccola) -. Se generalmente l’incorporazione della paglia è benefica per l’apporto di sostanza organica nei terreni, anche se purtroppo di sostanza non eccellente come potrebbe essere il letame, in alcuni terreni molto compatti o addirittura soggetti a risorgenza della falda acquifera l’interramento tutti gli anni potrebbe essere negativo. In questi casi sarebbe più saggia una rotazione della pratica, alternando anni di interramento con altri di combustione, in quanto la degradazione della paglia da parte della flora microbica è lenta, ed i processi anaerobici possono portare all’accumulo di materiali torbosi piuttosto che di humus, con pregiudizio alla produttività e salubrità del terreno. Ne sanno qualcosa in California, nella valle del Sacramento, dove la proibizione della combustione ha portato all’ incorporazione nel terreno sommerso di paglie intere, e conseguente macerazione nelle risaie mantenute allagate durante l’inverno. Dopo un grande entusiasmo iniziale, che ha visto il ripopolamento delle risaie da parte di una grande biodiversità di uccelli acquatici, si è levato l’allarme dei potabilizzatori delle acque pescate dal fiume Sacramento. I composti di degradazione anaerobica delle paglie, percolati nel fiume, si combinavano col cloro utilizzato nei potabilizzatori, finendo per introdurre organoclorurati cancerogeni nelle acque potabili. (atti del IV convegno internazionale della risicoltura temperata – Novara 2007).
Dal punto di vista economico, la trinciatura delle paglie tramite la mietitrebbiatrice, pur se non richiede manodopera aggiuntiva, non è gratuita: il consumo di gasolio nelle macchine moderne passa da 30 a 40 e più litri/ora, oltre all’usura del trinciapaglia che richiede una spesa non trascurabile per la sostituzione almeno biennale dei coltelli. In tempi magri come gli attuali, tutto pesa.
Se l’operazione di abbruciamento viene svolta in contemporanea su superfici enormi, crea problemi agli abitanti della regione, specialmente quando le condizioni meteo sono da sole causa di permanenza in aria di polveri sottili. Per questo è stato stilato anni fa un apposito regolamento che, per mitigare questi problemi, detta una serie di norme tendenti a limitare la pratica sia nell’entità di superficie sia nelle ore idonee all’operazione. Aggiungerei ai dettati del regolamento, la prescrizione di incendiare paglie in andana, ben secche: in questo caso la combustione completa porta ad un incenerimento totale, ed è sufficiente la rugiada della sera per immobilizzare le ceneri. I risultati peggiori si hanno invece incendiando paglie già trinciate, appoggiate a terra, che creano combustione incompleta e grande produzione di fumi, oltre ad essere un controsenso dal punto di vista economico, avendo sprecato le spese di trinciatura.
Una terza soluzione sarebbe quella di asportare le paglie, ove sono in eccesso dal punto di vista agronomico, ed utilizzarle a scopo energetico. Le prove di combustione in caldaia fatte in passato (Finassi et al.) hanno dimostrato la scarsa efficienza del procedimento, visto che l’energia necessaria a preparare le paglie per la combustione completa eguaglia o supera quella prodotta. Alcuni anni fa, durante il rally dei prezzi del petrolio, giunto a 150$ al barile, la Mossi & Ghisolfi a Crescentino aveva costruito uno stabilimento per la trasformazione della paglia di riso ed altri prodotti, come la canna palustre, in etanolo. Il calo del prezzo del petrolio ai livelli odierni ha portato fuori mercato l’operazione, per cui il prezzo ricavabile dall’etanolo non copre nemmeno lontanamente i costi di raccolta e trasporto delle paglia allo stabilimento: recenti notizie di stampa stanno addirittura mettendo in dubbio la sopravvivenza del medesimo. Una soluzione ragionevole che permetta agli agricoltori di sopravvivere in tutte le svariate condizioni pedologiche della Provincia, senza disturbare troppo la maggioranza dei cittadini, potrebbe essere l’applicazione rigorosa della normativa esistente, con relative sanzioni, piuttosto che invocare norme punitive per tutti a causa del comportamento scorretto di pochi».