Iniziamo col dire che le varietà di riso sono la mia professione: è dal 1993 che mi occupo – a tempo pieno – di costituzione varietale e in questi anni ho rilasciato circa 30 nuove varietà di cui numerose con gene Clearfield; alcune hanno avuto un adeguato sviluppo, altre sono nel cassetto e altre ancora, terminato il periodo di registrazione verranno immesse in coltivazione. Tutta la ricerca, sviluppo e conservazione in purezza viene effettuata in Italia, mentre la registrazione per ragioni di costi è fatta in altri Paesi dell’Ue. Sento spesso ripetere che il numero di varietà presenti nei cataloghi nazionali e comunitari è eccessivo, anzi, a detta di molti, tale numerosità è addirittura uno scandalo. Mi vien da rispondere che la nostra attività non è semplice, che i programmi sono a lungo termine 10-12 anni e che risulta difficile prevedere l’evoluzione dei mercati in questo arco temporale, che i programmi sono ampi, che interessano tutti i settori merceologici e solo quando le costituzioni che risultano stabili, omogenee, distinguibili e produttive vengono iscritte… E’ ovvio che resta il mercato – ovvero gli agricoltori – a decretare il successo di una varietà.
Ciò detto, è altrettanto ovvio che breeders sono interessati alle norme legislative che regolano il settore varietale del riso perché da queste norme discende la possibilità di programmare il lavoro. In questi mesi, il sito Risoitaliano ha alimentato la discussione sulla riforma di queste regole, rispetto alla quale mi sento di assumere una posizione che possiamo definire “non allineata”: la legge 18 marzo 1958 n. 235 secondo il nuovo testo in circolazione verrebbe abrogata per essere adeguata, come ammettono gli stessi legislatori, alle nuove esigenze dell’industria. Ma siamo sicuri che – al netto di queste “esigenze” – questa legge con piccoli adeguamenti non risponda più alle esigenze di tutela del riso italiano? A mio avviso, con la legge 235, che è un capolavoro di norme e di chiarezza, il riso italiano nella sua grande variabilità merceologica, viene identificato, valorizzato e tutelato al massimo: non esiste negli altri paesi in cui si coltiva il riso, una variabilità così ampia di tipologie di riso che si collegano a confezionamenti che sono unici e tipici della cucina regionale italiana ed infatti la nostra storia e fantasia ai fornelli è tale che viene riproposta in tutti i Paesi del mondo come made in Italy. Nel riso, tutto questo avviene grazie (anche) alla legge 235 che raggruppa nei vari gruppi merceologici le tipologie di riso omogenee per i diversi impieghi in cucina, aiutando non poco il consumatore. La legge in vigore, insomma, armonizza le esigenze degli agricoltori, dei trasformatori e dei consumatori finali, pertanto si può considerare perfetta e non a caso è da oltre 56 anni che regola il mercato del riso con gradimento di tutta la filiera: le opinioni sono tante, ma non vi è chi possa sostenere – seriamente – che questa legge ostacoli il commercio del riso in Italia.
Si sostiene che una differenziazione delle denominazioni provoca questo problema. Io sostengo il contrario e cito i listini delle borse merci: anche in quel caso vengono differenziati i gruppi merceologici di appartenenza delle varietà che hanno caratteristiche simili e si premiano con quotazioni più elevate i risi la cui coltivazione è più impegnativa o con caratteristiche merceologiche superiori: la varietà Augusto, ad esempio, negli ultimi anni è stata quotata a parte nei listini con prezzi superiori al gruppo di appartenenza dei Lunghi A da parboiled grazie alla sua qualità.
Veniamo al testo diffuso da Risoitaliano. Ho analizzato attentamente la nuova proposta e non riesco a capire come possa integrarsi con la commercializzazione del risone. L’art. 2 riporta la classificazione del riso nei gruppi tondo, medio, lungo definiti dall’allegato 4. Nell’allegato 4 a leggerlo bene non esistono i risi Lungo B. E’ una mancanza grave. Si è già deciso che non si dovranno più coltivare?, I listini come si adegueranno? E ancora: la classificazione dei risi integrali pigmentati, risi a pericarpo rosso e nero, per essere classificati devono essere lavorati, alterando le caratteristiche biometriche, per essere inseriti nei gruppi. Vale la biometria del riso integrale…
L’art. 3 riporta le denominazioni di vendita delle varietà tradizionali. E’ sconcertante vedere che il riso non possa chiamarsi con il proprio nome bensì con quello indicato nell’allegato 1, in cui figurano solo le vecchie varietà (Arborio, Roma/Baldo, Carnaroli, Vialone Nano e S. Andrea). Non so neppure quanto sia legittimo – giuridicamente parlando – non poter indicare il nome di una propria costituzione sulla scatola di riso bianco. Stiamo parlando, lo ricordo, di brevetti…
Altra norma di cui non si capisce la necessità è l’indicazione “classico” riservata a determinati risi. Esistono per alcune varietà come Vialone Nano, S. Andrea e altre che hanno ottenuto riconoscimenti quali la DOP o IGP che ne identificano, attraverso disciplinari rigorosi la provenienza e i metodi di coltivazione ecc. La DOP, DOCG e l’IGP sono strumenti che l’agricoltura italiana e comunitaria possiede per valorizzare le produzioni di eccellenza italiane. A cosa serve introdurre altre forme di tutela peraltro non previste da norme comunitarie? E’ illogico e controproducente per il mercato assegnare dei valori a produzioni che sono sovrapponibili con i disciplinari IGP e DOP. Avremo due listini, Carnaroli, Arborio ecc. “classico” che saranno tracciati per qualche migliaio di quintali e gli altri Carnaroli, Arborio di serie B che verranno deprezzati? Sono trappole che bisogna evitare. Più leggo la bozza e più mi chiedo: è davvero necessario, per assecondare poche ristrette “esigenze” abrogare la legge 235 che funziona a perfezione? Autore: Eugenio Gentinetta. (18.07.14)