In un recente editoriale, Piero Garrione ha sostenuto che la legge sul mercato interno del riso vada riformata per dare dei criteri chiari alla selezione di nuove varietà e assicurare un futuro alle produzioni italiane (http://www.risoitaliano.eu/garrione-la-legge-sul-mercato-interno-va-approvata/). Sull’argomento interviene, esponendo una tesi contraria, un breeder indipendente di chiara fama, Eugenio Gentinetta, il quale racconta in esclusiva per Risoitaliano.eu la propria esperienza e giunge a una conclusione diametralmente opposta: quella legge non va riformata. Nel presentarvi la posizione di Gentinetta ricordiamo che le varietà di cui è costitutore rappresentano nel 2015 oltre il 10% della superficie coltivata e oltre il 20% dei risi cosidetti per risotti. Ecco il testo di Eugenio Gentinetta: «E’ la seconda volta che intervengo sul tema della legge del mercato interno e mi vedo costretto a farlo perché il risicoltore Piero Garrione, già presidente dell’Ente Risi e già dirigente sindacale, sostiene la necessità di riformare questa legge per arrivare a indirizzare nel verso del mercato l’attività dei breeder che oggi – cito testualmente – “inseguono le performances agronomiche, la resistenza alle fitopatologie, l’adattabilità alle diverse tecniche colturali e ai prodotti che sono utilizzati e naturalmente anche certe caratteristiche qualitative, ma massimamente si orientano ad assicurare alle nuove varietà la massima resa, mettendo in secondo piano le caratteristiche merceologiche e organolettiche della cariosside”. Garrione sembra convinto che un breeder oggi lavori in modo indipendente dalla domanda di mercato, o, per meglio dire, da quella del mercato dei consumatori, che costituisce l’approdo finale del lavoro di noi tutti. In realtà non è così. Innanzi tutto, perché, contrariamente alle istituzioni di ricerca pubbliche o private che hanno altri ritorni, nel primo caso finanziamenti pubblici, nel secondo commercializzazione del seme certificato, nel caso di un selezionatore indipendente gli unici introiti sono i diritti di costituzione: pertanto, ogni progetto di ricerca che sviluppo ha un inquadramento economico ben preciso. Questo inquadramento non prescinde affatto dal mercato finale del riso, cioè non risente soltanto della domanda posta in essere dai risicoltori, che potrebbero essere interessati effettivamente alla “massima resa”, come scrive Garrione. Per dimostrarlo, devo citare dei casi personali.
Con il rilascio di Karnak, operazione molto coraggiosa, abbiamo ampliato ad esempio la base di coltivazione del Carnaroli, passando dai tradizionali 700 Ha coltivati ai circa 15.000 Ha attuali, facendo diventare i risi appartenti al gruppo Carnaroli, che comprende oggi diverse varietà simili, nazional-popolari. Con il rilascio di Augusto, con tutte le traversie legate alla sua diffusione nei primi anni di rilascio, che gli agricoltori di Vercelli ben ricordano, abbiamo stabilito un altro riferimento di qualità del settore dei risi parboiled, che è stato riconosciuto nelle diverse borse merci con una sua distinta quotazione premiante. Con il rilascio recentissimo di Cammeo, abbiamo fatto una operazione salutare per l’economia della risicoltura.
Vediamo di analizzare insieme alcuni aspetti topici, onde illustrare la complessità di tale lavoro. Il primo obiettivo è stato quello di costituire un riso cristallino, a profilo tipo Baldo, con peso di 1000 semi maggiore di 30 g e che sia idoneo all’esportazione nei paesi del Medio Oriente. Per i dettagli si veda un mio precedente articolo su risoitaliano. La varietà Cammeo è stata iscritta nel registro varietale romeno, quindi in quello europeo e da subito ha avuto il gradimento degli agricoltori e dell’industria del riso. I motivi sono due. Il primo, come scrive su Facebook un agricoltore milanese, ha una produzione “imbarazzante”; il secondo che ha una resa alla lavorazione, media di centinaia di campioni, maggiore di 63% di intero e maggiore di 72 di globale. Cosa vale questa varietà? Nel 2015 si sono messi in coltivazioni circa 10.000 Ha, dati non ufficiali in quanto molti agricoltori dichiarano altri risi e molti, dato che il seme certificato si è esaurito prima ancora del raccolto, hanno reimpiegato il seme. Oggi la produzione si stima in 70.000 t., (+10.000 t nel caso di impiego delle varietà storiche, meno produttive) e con una resa alla lavorazione del 63% arriviamo a 44.000 t di riso bianco (la resa è maggior e del 6/7% rispetto alle varietà storiche, quindi + 4.200 t). Diamo un valore 10.000 t x 450 €: possiamo stimare 4,5 milioni di euro a vantaggio degli agricoltori e 4.200 x 900 ci conducono a una stima di circa 3,8 milioni di euro a vantaggio dell’industria.
Insomma, l’operazione Cammeo accontenta tutti, anche chi molto superficialmente continua a sostenere che ci sono troppe varietà. Certo, questi successi maturano in un decennio e può essere utile ripensare ogni tanto le norme vigenti, ma una riforma mal fatta rischia di rompere un meccanismo che funziona, che produce ricchezza e lavoro. Ma questo “gioco” funziona solo perché esistono le varietà, su cui si investono soldi e anni di fatica, permettendo al costitutore di preservare il valore del proprio ingegno, all’agricoltore quello della propria scelta imprenditoriale e all’industria quello della propria scelta di marketing. Al contrario, la proposta di legge che dovrebbe guidare il governo nell’attività delegata di riforma è disastrosa e umiliante per i ricercatori che non hanno la possibilità di vedere i loro prodotti commercializzati con il proprio nome e dovranno ricorrere ad altre istanze per veder riconosciuti diritti sacrosanti. Come si dice, c’è sempre un giudice a Berlino». Autore: Eugenio Gentinetta (08.08.2015)