La coltivazione “biologica” del riso é una realtà inconfutabile. Ha un suo mercato, in espansione, ha una schiera di consumatori, occupa una nicchia non trascurabile sugli scaffali. Ha prospettive per il futuro. Queste considerazioni vanno però calate ed integrate da altre considerazioni non trascurabili che riguardano il soddisfacimento delle esigenze alimentari e le ricadute sull’ambiente.
Per tutto il tempo dell’Expo siamo stati invitati a produrre “qualità” senza tener conto di quanto costi produrla. Esitono costi evidenti e costi occulti. Produrre biologico significa comunque produrre meno dello standard. Con quali costi?
Senza pretese di scientificità, un amico risicoltore mi dice che con l’assegnazione di 200 litri di gasolio agricolo Uma se produce riso biologico non deve concimare e diserbare come se coltivasse riso convenzionale e alla fine essicherebbe meno quintali, quindi userebbe, mi dice, solo 140 litri di gasolio; peraltro, se si dividono i consumi in base alle produzioni reali produrre riso convenzionale gli costa 200 /70 = tre litri per quintale mentre produrre bio gli costa 140/25 = sei litri per quintale. Questo significa, mi fa notare, costi più alti per i produttori e per l’ambiente, anche perché per avere la medesima produzione di risone il metodo biologico impegnerebbe anche un ettarato maggiore, un maggior consumo d’acqua, ecc. Non è finita: il consumatore di riso bio lo deve mangiare integrale per avere un reale beneficio in termini di maggiore salubrità, perché come sappiamo – se prestiamo attenzione ai possibili residui – il riso biologico differisce dal riso convenzionale solo a questa condizione. Ma il riso integrale richiede tempi di cottura più lunghi, diciamo doppi. Altra energia che se ne va… senza contare le emissioni di CO2.
Più scientificamente, la recente sperimentazione promossa dall’Accademia di Agricoltura di Torino e presentata su Risoitaliano da Giuseppe Sarasso ha dimostrato che – rinunciando alla chimica – solo attraverso un film protettivo si riesce a controllare efficacemente lo sviluppo delle infestanti presenti nella “banca semi del terreno”. Il risultato può essere ottenuto schiacciando e rullando una coltura di copertura: questo implica una ulteriore spesa energetica, con relative emissioni di gas serra; non solo, ma si pone il problema dello scarico delle acque di lavaggio durante la germinazione del riso, che sono acque fortemente inquinanti e abiotiche. In conclusione il ciclo della coltivazione “biologica” del riso comporta una costo specifico energetico ed ambientale nettamente superiore alle coltivazioni tradizionali, sul quale varrebbe la pena di riflettere. Se poi a questo gap energetico e ambientale si somma l’impiego di vecchie varietà, meno produttive, poco adatte alla raccolta meccanica (allettamento), l’adozione di rotazioni sfavorevoli, il prezzo di vendita del prodotto dovrebbe essere almeno quattro volte superiore a quello del mercato. Perché la qualità costa e va ripagata. Credo che vi siano abbastanza argomenti per discutere di riso bio e convenzionale, oggi, in Pianura Padana. Autore: Antonio Finassi, accademico dell’agricoltura di Torino e accademico dei Georgofili. (11.11.2015)