La politica agricola Europea nacque sotto il vivo ricordo della fame subita durante e dopo la seconda guerra mondiale. In quel senso la politica funzionò molto bene, tanto che negli anni ’80 vi era difficoltà nello smaltire gli eccessi produttivi. Nel giro degli ultimi 70 anni la popolazione europea è passata dalla fame alla dieta, ed il suo attuale problema principale è quello di limitare il proprio peso corporeo. Per aderire alla globalizzazione fu abbandonata la politica dei prezzi, e si passò ad erogare contributi direttamente agli agricoltori, in modo da permetter loro di sopravvivere alla riduzione dei prezzi di mercato. I salari europei, comprensivi dei contributi sociali, almeno per i lavoratori in regola, sono superiori di 30 volte a quelli di Cambogia e Myanmar; i costi dei fitofarmaci sono molto maggiori, rispetto ai concorrenti esteri che utilizzano principi attivi più tossici, ma meno costosi, in Europa da tempo vietati; inoltre i concorrenti coltivano varietà OGM, più resistenti alle malattie e più produttive. Gli agricoltori considerano quindi che i contributi UE siano loro dovuti come risarcimento alla mancata protezione daziaria, e necessari a mantenere la sopravvivenza delle loro aziende, mentre l’opinione pubblica, e di conseguenza i governanti, li considerano ormai un “regalo” da elargire in funzione di un “buon” comportamento degli agricoltori.
L’ambientalismo alza la voce
Nel corso dell’elaborazione della nuova PAC 2003-2009 le organizzazioni ambientaliste alzano la voce. Alla recente discussione sugli eco-schemi, da applicare dal 2023, organizzata dal Ministero delle politiche agricole, sono intervenuti tre agricoltori, a rappresentare i loro sindacati, e 132 “portatori di interesse”, vale a dire associazioni ambientaliste. Quindi il confronto fra tre persone esperte di agricoltura contro 132 ideologi, presentava un rapporto simile a quello tra gli spartani ed i persiani alle Termopili. Anche sulla stampa generica si leggono articoli ideologici, slegati dalla realtà. Il 12 settembre il Fatto Quotidiano, a firma di Luisiana Gaita, ha pubblicato un articolo che esprime l’ideologia ambientalista contro “l’agricoltura e gli allevamenti intensivi”:
Citando anche Greenpeace si scrive che l’80% dei contributi UE viene erogato al 20% degli agricoltori, considerati “colossi”. Non si distinguono le imprese agricole attive da quelle che operano in modo secondario in agricoltura, per autoproduzione. In Italia (dati ISTAT) le aziende attive sono 413.000, il 27% del totale di 1,5 milioni, che coltivano il 65% della SAU su di una media di 20 ha di superficie (quindi sono tutt’altro che colossi), e producono il 75,8% del cibo totale. Tutte le altre, oltre un milione, vivono per l’autoconsumo, senza portare nulla al mercato. Quindi si vorrebbe penalizzare la parte essenziale dell’agricoltura italiana. I contributi previsti per le aziende italiane ammontano a 38 miliardi in sette anni, dei quali 10 per il secondo pilastro, orientato verso l’ecologia. Questi sono dedicati ai Piani di Sviluppo Rurale, ancora da elaborare da parte di ciascuna Regione, per i quali gli agricoltori dovranno presentare domande, che saranno soddisfatte dopo i dovuti controlli solo in funzione delle disponibilità finanziarie, quindi con incerti risultati. Dei 28 miliardi rimanenti, il 25% (quindi altri 7) sono pure riservati all’ecologia, tramite gli eco-schemi, meccanismo ancora in fase di ideazione. Ne rimangono 21, che divisi per 7 anni diventano 3 all’anno. Rispetto alla produzione agricola (l’ultima stima pubblicata da ISTAT risale al 2013) di 43,9 miliardi di Euro, i 3 miliardi rappresentano il 6,8% del fatturato, del tutto insufficienti per compensare i maggiori costi produttivi rispetto ai Paesi nostri concorrenti.
Produttività o ettarato?
Molti studi hanno dimostrato che, di fronte all’aumento della popolazione mondiale, per proteggere la biodiversità selvatica sia necessario incrementare le produzioni per ettaro delle terre coltivate. Se questo non accadrà, bisognerà ampliare le terre coltivate, a scapito delle foreste e dei pascoli permanenti, proprio le aree necessarie a preservare la biodiversità. Aissa (Associazione Italiana delle Associazioni Scientifiche Agrarie) in una sua pubblicazione segnala che l’agricoltura biologica ha un impatto ambientale minore di quella intensiva se il calcolo viene fatto sugli ettari coltivati, ma maggiore se misurato rispetto alla quantità di cibo prodotto. Il 2 marzo 2021 un gruppo di ricercatori afferenti al Joint Research Centre ISPRA della Commissione Europea e alla divisione di Statistica della FAO, hanno pubblicato su Nature Food un interessante articolo, dove si evidenzia come le emissioni di tutti i gas serra legate alla produzione di cibo sono aumentate del 12,5% tra il 1990 ed il 2015, passando da 16 a 18 Gt di CO2/anno, mentre la contemporanea produzione di cibo è aumentata in quegli anni del 40%. Se nel 1990 dette emissioni incidevano per il 44% sul totale mondiale, nel 2015 pesavano per il 34%. Quando l’articolo in questione lamenta la mancata riduzione dei gas serra da parte dell’agricoltura deve aver citato un riferimento assoluto, senza tener conto dell’aumento della popolazione mondiale e della sua richiesta alimentare. Lo stesso vale per gli allevamenti: negli ultimi 60 anni, con la zootecnia intensiva, si è dimezzata l’emissione di CO2 per ogni litro di latte e kg di carne prodotti.
Se il letame manca…
L’obiettivo di ridurre l’utilizzo dei fertilizzanti chimici confligge con la riduzione del consumo umano delle carni e del latte, quindi degli allevamenti intensivi, auspicata dagli ambientalisti. Già oggi la produzione di letame, fertilizzante “naturale” per eccellenza, non è sufficiente per l’agricoltura; se lo si vuole ridurre ulteriormente senza ricorrere ai fertilizzanti di sintesi si tornerebbe ai tempi di Virgilio e Columella, quando si utilizzava il maggese, e la popolazione da nutrire era al di sotto del miliardo. Viene lamentata una insufficiente spinta all’applicazione del Farm to Fork, ignorando le perplessità esposte dal Ministero dell’Agricoltura degli Stati Uniti (USDA) e da una Commissione Scientifica appositamente nominata dalla Commissione UE, che hanno eseguito due studi indipendenti sui risultati previsti dalla sua applicazione. La produzione europea del cibo si ridurrebbe in modo sensibile, col risultato di ridurre del 28% l’emissione agricola dei gas serra, che però verrà solo “delocalizzata” nei Paesi dai quali si dovrà importare il cibo mancante. I Paesi fornitori sono gli stessi che stanno eliminando le foreste per produrre quanto serve a noi.
Non si può eleggere un obiettivo come bene assoluto, senza considerare la complessità dei sistemi agricoli, in parte ancora ignota. La soluzione è, secondo il giudizio degli esperti del settore, l’intensificazione sostenibile: migliorare e impiegare tutte le conoscenze e le tecnologie disponibili per produrre quanto serve a sfamare la popolazione mondiale, limitando l’impatto ambientale, senza ampliare le terre coltivate. L’ideologia di azzerare in tempi brevi l’impatto ambientale dei 7,9 miliardi di abitanti della Terra, previsti in veloce crescita, solamente vietando i progressi dovuti a chimica, genetica e meccanizzazione finora ottenuti, appare una pericolosa chimera. Citando Olivier De Kersauson: “tutte le ideologie politiche che volevano modificare il mondo contadino sono fallite, perché il mondo contadino non può essere governato dalle teorie, è governato dalla realtà”. Autore: Giuseppe Sarasso, agronomo