Lo scorso venerdì, in occasione del 250° anniversario della costruzione della Tenuta Mandria di Chivasso, in collaborazione con l’Accademia di Agricoltura di Torino si è svolto un convegno dal titolo intrigante: l’agricoltura del domani. All’inizio si è ricordato il 260° anniversario dalla costruzione del canale di Caluso, e dei suoi problemi attuali per le interferenze con tutte le aree urbanizzate che si sono aggiunte in questi anni, tanto da rendere lo smaltimento degli scarichi più oneroso rispetto all’attività di irrigazione dei 7000 ha del basso Canavese.
Il ruolo della meccanizzazione
Quindi si è volto lo sguardo in avanti, per capire quale sarà il futuro dell’agricoltura italiana. Il Prof. Pietro Piccarolo, già presidente dell’Accademia di Agricoltura di Torino ed attuale vicepresidente dell’Accademia dei Georgofili, ha illustrato il grande sviluppo della meccanizzazione agricola degli ultimi anni. L’elettronica è diventata protagonista, grazie alla georeferenziazione satellitare, ed alle informazioni ottenute da un numero sempre crescente di sensori che informano sulla umidità del terreno, sul vigore delle piante, sulle produzioni ottenute nelle diverse parti degli appezzamenti, ed altro ancora. Le macchine distributrici di fattori tecnici liquidi e solidi, grazie ai segnali GPS, permettono di variare le dosi distribuite in base a mappe pre-elaborate o in tempo reale in funzione delle segnalazioni dei sensori, evitando anche fallanze e sovrapposizioni. Se il sistema viene ben utilizzato permette di risparmiare fertilizzanti e fitofarmaci, con miglioramento della redditività e riduzione degli impatti ambientali. La tecnologia però si sta affermando lentamente, a causa della frammentazione fondiaria, della piccola dimensione di molte aziende che non sono in grado di ammortizzare i costi di acquisto di attrezzature complesse, e della età media avanzata degli addetti all’agricoltura. Si è ipotizzato per il futuro il ricorso ad aziende esterne che forniscano i fattori tecnici e li distribuiscano direttamente sui campi disponendo di attrezzature avanzate, senza trascurare l’incentivazione del riordino fondiario ed irriguo, attività da sempre invocata ma ancora al palo di partenza.
Cerealicoltura in crisi
Il Prof. Amedeo Reyneri, docente di agronomia all’Università di Torino, e Accademico di agricoltura, ha condiviso gli auspici formulati dal Prof. Piccarolo, ed ha proseguito illustrando interessanti statistiche sulla coltura cerealicola italiana, con commenti a dir poco preoccupati. Dal 1900 ad oggi, la superficie coltivata italiana si è ridotta del 30%, pari a 5 milioni di ettari, dei quali 3 di cereali. Pascoli e praterie si sono ridotti del 45%, pari a 4,4 milioni di ettari, le costruzioni hanno occupato 1,2 milioni di ettari. In compenso i boschi si sono espansi di 5 milioni di ettari. Nella media degli ultimi 10 anni, ogni giorno sono scomparsi 70 ha di coltivi, sono stati occupati 15 ha per costruzioni, mentre boschi e foreste sono cresciuti di 115 ha. Nell’assoluto silenzio dei media, stiamo andando controcorrente rispetto all’Amazzonia, lasciando al Brasile l’onere di produrre cibo anche per noi, e per questo anche subire il nostro biasimo. L’abbandono dei territori montani non cessa, i boschi crescono spontanei ed incontrollati, con i conseguenti pericoli di incendi e dissesti idrogeologici. Dal 1960 ad oggi le superfici seminate a cereali e proteaginose si sono ridotte in media di 50.000 ha/anno, e le importazioni sono cresciute nello stesso periodo del 54%: una delle ragioni è senza dubbio la scarsa redditività: fatto 100 il prezzo attuale di mais e soia, nel 1960 in termini reali era a quota 150, per raggiungere 400 negli anni ‘70 e poi ridursi gradualmente ai valori odierni. Il bilancio commerciale del settore ci vede in perdita per 1,2 miliardi di Euro: questa è controbilanciata dal valore delle esportazioni di prodotti pregiati, quali prosciutti e formaggi, ma la cosa può durare? Il regolamento UE 664/2014 prevede che, per i prodotti di origine animale IGP e DOP, i mangimi debbano derivare per il 100% dalla zona delimitata. Con una postilla in deroga si permette però che, se ciò non modifica le caratteristiche organolettiche dei prodotti animali, si possano utilizzare mangimi provenienti da zone esterne fino ad un massimo del 50% di sostanza secca. Siamo ormai giunti vicinissimi a quei limiti. Se la bozza del nuovo PAN, in discussione in questi giorni, verrà approvata come è stata proposta, i limiti posti sulla difesa delle piante saranno tali da rendere certa la prospettiva della riduzione delle rese per ettaro. Questa penalizzazione, sommata alla disaffezione nei confronti delle semine dei cereali, incrementerà ancora la necessità di importazioni; sarà quindi impossibile disporre di mangimi autoctoni in quantità tale da continuare a certificare nella misura attuale larghi settori delle nostre produzioni di successo. Ci sono quindi valide ragioni per essere preoccupati. Autore: Giuseppe Sarasso, agronomo