Per il riso italiano l’Expo rischia di essere una occasione perduta. Adombriamo questa possibilità da mesi e non per un difetto d’amor patrio. Per evidenza. Perché per mesi le istituzioni territoriali hanno emesso comunicati stampa trionfalistici e impegnativi sulla capacità di sfruttare la vetrina mondiale del 2015 per promuovere il riso italiano, salvo poi scoprire che il prodotto nazionale resterà letteralmente fuori dall’uscio. Il velo è caduto nei giorni scorsi, in malo modo.
«Rinunciare a entrare nel cluster è stato un errore. Reso ancor più grave dalla scelta di averlo fatto per timore di misurarsi con competitor internazionali, rispetto ai quali non dovremmo certo avere complessi d’inferiorità» ha detto infatti Gianni Fava (foto piccola), assessore all’agricoltura della Regione Lombardia, al Collegio Borromeo di Pavia, di fronte al mondo agricolo, riunito per la terza tappa dell’Expo Tour della Regione nelle province lombarde. Il Giorno riferisce che Fava ha strigliato soprattutto gli industriali: «Nel cluster in progettazione all’Expo – spiega l’assessore al Giorno – ci sono Paesi che competono in modo scorretto, perché non giochiamo la stessa partita. Per anni il sistema dei dazi ci ha favorito, poi per ragioni umanitarie sono stati tolti e Stati come la Birmania e altri sono diventati competitor». Su tratta di «avversari forti, che vanno affrontati, misurandoci sulla qualità, che per noi resta l’arma vincente, e non scappando. E invece questo è successo: nel riso, così come nel vino».
Se un assessore regionale si esprime in questi termini, essendo noti i rapporti storici di collaborazione con la filiera risicola, è perché al riparo da occhi indiscreti stanno volando i piatti e il motivo può essere solo uno: i conti non tornano. A un anno dall’inaugurazione, del cluster del riso si sa poco o nulla: si è candidata a gestirlo la Regione Piemonte, ma subito sono insorte le altre filiere rivendicando attenzione (e investimenti) analoghi. Le stesse Camere di Commercio piemontesi si sarebbero espresse contro. In Lombardia, come detto, l’iniziale entusiasmo si è raffreddato non appena ci si è resi conto che per gestire il cluster in cui si dovrebbe esporre il meglio della risicoltura mondiale bisogna mettere sul tappeto milioni di euro (sic), che le amministrazioni pubbliche non hanno e il privato non si sogna di tirare fuori. In realtà, accusare il privato di non avere abbastanza coraggio, questa volta, è fuori luogo: la promozione del prodotto nazionale spetta a organismi pubblici ma non tutti sono stati ammessi a partecipare al bando per la gestione del cluster del riso.
L’Ente Nazionale Risi, ad esempio, sta seguendo il dossier ma l’avviso pubblico per la manifestazione d’interesse, pubblicato nel dicembre 2013, non lo include tra gli aventi diritto a partecipare, mentre include espressamente le Regioni insieme agli altri enti territoriali. Interpellato da Risoitaliano, il presidente dell’Ente Risi non nega che ci siano dei problemi ma dichiara: “Noi continuiamo a seguire il progetto, stiamo lavorando in silenzio perchè il riso italiano abbia un’adeguata rappresentazione all’interno dell’Expo”. Di più Paolo Carrà (foto piccola) non dice. A parlare con i funzionari delle Regioni interessate si capisce che il momento è delicato e le parole di Fava provano quanto siano tesi i nervi. Il problema è proprio il meccanismo ideato da Expo per creare i cluster. Chi gestisce quello del riso deve investire una cifra considerevole (2,8 milioni di euro) solo per essere della partita, poi deve farsi carico di una serie di oneri aggiuntivi e non è chiaro con quale vantaggio. Stando all’avviso pubblico, ad esempio, sembra che il cluster debba destinare un’area di mille metri quadrati ai Paesi espositori (Cambogia, Laos, Myanmar, Sierra Leone, Bangladesh e Pakistan) e i restanti duemila a mostre, ristorazione ed eventi: se sarà così, è evidente che la vetrina sarà dedicata ai produttori asiatici e che il riso italiano, ammesso che un ente pubblico si faccia carico dell’investimento, potrà essere presentato nelle aree esterne al padiglione espositivo. Fuori porta, appunto, tra venditori di risotti e di gelati…
In questi mesi abbiamo chiesto ad Expo di precisare meglio questo progetto, ma la nostra richiesta (e non solo la nostra) è ancora in attesa di risposta. Lo sfogo di Fava rivela però la debolezza dell’impianto. Affermare, come fa la Regione Lombardia, che gli “avversari forti vanno affrontati, misurandoci sulla qualità, che per noi resta l’arma vincente, e non scappando” è vero ma fuorviante: gestire il cluster del riso in cui saranno presenti i produttori di riso asiatico – senza precise garanzie – significa investire somme considerevoli in una struttura che accomunerà il riso italiano e quello cambogiano o birmano e da quest’operazione trarrà beneficio solo il nostro concorrente, perché potrà presentarsi al mondo sullo stesso piano di un prodotto qualitativamente superiore. Se un noto marchio italiano si è fatto carico del cluster del caffè è perché in quell’ambito i paesi produttori sono dei fornitori, mentre nel mercato del riso gli asiatici come gli americani sono dei concorrenti che importano in Europa prodotto già lavorato e spesso già confezionato. In pratica, investiremmo per promuovere la concorrenza.
Questa impostazione, studiata dall’Università Bicocca di Milano, risponde probabilmente al galateo internazionale delle Università e all’esigenza scientifica di mettere in primo piano i maggiori produttori di riso al mondo, quindi i massimi contributori sul piano della nutrizione del pianeta, ma non risponde affatto agli interessi nazionali e chiede alla filiera di impegnarsi in un progetto che, se il riso italiano non avrà precise garanzie di esposizione, nasce “straniero”. (15.04.14)