C’era un pienone al convegno dell’Ente Risi sul seme e questo significa che i risicoltori ancora non hanno deciso cosa seminare quest’anno. Proprio così: la partecipazione a quest’evento, che si ripete ogni anno e che in quest’edizione ha dato ampio spazio alle ditte sementiere per presentare le proprie novità, è indice di incertezza. Che si concentra sulle semine di primavera e che è motivata dai listini del risone, è chiaro, ma grave perché dimostra la fragilità della filiera. Fragile e divisa, come dimostrano i viaggi degli industriali in cerca di nuovi raccolti e la richiesta, che sarebbe stata esplicitata al recente tavolo di concertazione, di accelerare il sondaggio dell’Ente Risi sulle semine per poter disporre di dati certi. Diciamo subito che è una richiesta sensata, peccato che l’industria invochi certezze, obiettano tutti i sindacati agricoli, solo dai produttori e non sia disponibile a istituire l’osservatorio sugli scambi di risone e riso lavorato che è stato da più parti invocato (e promesso).
Ma torniamo al convegno, che ha fornito i dati sul seme certificato – anticipati da questo articolo -, utilizzati da Assosementi per accusare gli agricoltori di non badare alla qualità, ricorrendo al reimpiego. L’accusa è diretta: la prassi di utilizzare il seme aziendale, che interessa ormai oltre il 30% delle semine, favorisce la diffusione del nematode (l’Aphelenchoides besseyi) «che dal 2011 a oggi ha colpito oltre il 10% delle partite di seme del riso, quindi sottratte al commercio, e non sembra volersi arrestare» secondo Massimo Biloni, coordinatore del Gruppo riso di Assosementi.
«Il nostro settore costituisce da sempre a livello europeo un’eccellenza da salvaguardare, ha dichiarato Massimo Biloni. Tuttavia, negli ultimi cinque anni non è stato possibile certificare oltre 17.000 tonnellate di semente di riso, pari a 410 partite di seme in natura, per l’impossibilità di rimuovere questo nematode, un autentico flagello per le risaie. Non è più sostenibile che le uniche figure sottoposte a controlli, ossia le aziende sementiere, si facciano integralmente carico del contenimento del problema ed è giunto il momento che anche tutto il resto della filiera intervenga mettendo in atto le migliori strategie di contrasto. La diffusione del nematode rappresenta un’ulteriore difficoltà per l’attività sementiera risicola italiana che si va a sommare al crescente impiego di seme non certificato: un fenomeno che secondo le stime Assosementi ha ormai raggiunto il 30% delle superfici coltivate – ha aggiunto Biloni -. Infatti, mentre crescono le superfici coltivate a riso, i quantitativi certificati di semente segnano il passo, indice di un sostenuto ricorso al reimpiego. L’utilizzo di sementi certificate è il solo strumento che garantisce la sanità e la germinabilità del seme, oltre che la sua identità varietale, e quindi è il presupposto a garanzia di produzioni di qualità e sicure per il consumatore». L’accusa di Assosementi ha un obiettivo preciso: indurre le Regioni a condizionare l’erogazione degli aiuti del Psr all’uso di semente certificata e ottenere dal legislatore una copertura giuridica per il pagamento delle royalties sulle varietà non assoggettate a privativa comunitaria.
Non è chiaro cosa ne pensino i sindacati, ma i sementieri sono determinati a recuperare quel 30% di fatturato che si è inabissato negli ultimi anni, anche a causa dell’attività di ditte specializzate nella selezione del seme, che rendono tecnicamente possibile il reimpiego. Contro questa pratica, che secondo alcune “dicerie” sconfinerebbe in attività di dubbia legalità, come la concia del seme (che può essere effettuata solo da ditte specificamente autorizzate), è in corso un programma di “recupero royalties” affidato a una ditta specializzata. Un percorso legittimo e legale, che tuttavia deve tener conto anche del fattore crisi – il boom del reimpiego è una conseguenza del crollo di redditività della risicoltura… – e proprio per questo i sementieri cercheranno di vincolare l’uso di seme certificato soprattutto all’erogazione degli aiuti pubblici.