La notizia riportata da Riso Italiano secondo cui il Parlamento Europeo avrebbe intenzione di promuovere l’uso esclusivo di fitofarmaci biologici sta suscitando perplessità e polemiche tra gli operatori ed i tecnici. Qualcuno ha acutamente commentato che la situazione è, per dirla con Flaiano, grave ma non seria. In effetti a confermare questa impressione giunge la contemporanea decisione di un’altra istituzione comunitaria, la Commissione Europea presieduta da Jean-Claude Juncker, che nei giorni scorsi ha negato l’autorizzazione all’immissione in commercio ed all’impiego di due sostanze di base per prodotti fitosanitari biologici a causa della potenziale pericolosità degli stessi per la salute umana. Con i Regg. UE 2017/240 e 2017/241 del 10 febbraio scorso la Commissione ha infatti deciso rispettivamente di non autorizzare l’uso come sostanze di base per prodotti fitosanitari degli oli essenziali di Satureja montana (santoreggia di montagna), di cui si richiedeva l’impiego come fungicida e battericida, e di Origanum vulgare (il comune origano), il cui impiego era proposto anche come insetticida.
La decisione dell’ UE, che dimostra come in Europa non si vietino solo fitofarmaci di sintesi (nella stessa seduta la Commissione ha revocato il Linuron, un vecchio erbicida per frumento ed ammesso il nuovo antiperonosporico oxathiapiprolin), è motivata dall’insufficienza dei dati circa la potenziale pericolosità di questi composti naturali. In specie, per quanto riguarda l’olio essenziale di origano, la Commissione ha rilevato motivi di preoccupazione relativi agli effetti di alcuni componenti dell’olio essenziale quali il carvacrolo (di cui sono note le proprietà genotossiche e citotossiche), il gamma-terpinene e l’ 1,8-cineolo. Anche più serio il potenziale profilo tossicologico dell’ olio essenziale di santoreggia montana per il quale, oltre ai problemi relativi ai citati carvacrolo e gamma-terpinene, risulterebbero in letteratura effetti neurotossici ed interferenze sulla coagulazione del sangue e sull’attività riproduttiva “…al limite del perturbatore endocrino”.
Con questo non si vuol fare allarmismo, sia chiaro, né “criminalizzare” nessuno: questi sono sport che non appartengono a chi cerca di praticare l’approccio scientifico. Piuttosto trova conferma il vecchio (risale al 1500 circa) ma sempre attuale principio di Paracelso per cui “tutto è veleno: nulla esiste in natura di non velenoso” e sono le dosi, i tempi e le modalità dell’esposizione a determinare il livello di rischio. D’altro canto che i prodotti fitosanitari naturali possano essere fortemente tossici per l’uomo e l’ambiente è cosa ben nota: ne è una riprova la revoca totale, avvenuta tra il 2008 ed il 2012, dell’ autorizzazione all’impiego del rotenone, un insetticida e acaricida di origine naturale utilizzato in agricoltura biologica ma caratterizzato da altissima tossicità verso l’ambiente acquatico e le api.
Che la strada per l’introduzione di prodotti fitosanitari “bio” o comunque di origine naturale, per quanto interessante e meritevole di approfonditi studi e ricerche, si presenti piuttosto lunga ed accidentata lo dimostra anche il caso dell’acido pelargonico. Recentemente presentato con grande enfasi come il primo erbicida naturale e veramente “biologico” e destinato secondo alcuni a sostituire il glifosate nelle pratiche di diserbo non selettivo (si tratta di un “totale” che dovrebbe eliminare ogni pianta con cui viene in contatto), l’acido pelargonico non è tuttavia privo di rischi, potendo causare gravi lesioni cutanee, epiteliali ed oculari. I primi test di efficacia, che andranno certamente ripetuti ed eventualmente meglio tarati, sembrerebbero aver fornito risultati piuttosto deludenti a fronte di costi estremamente elevati ed allo stato attuale difficilmente sostenibili. Quello dell’efficacia dei prodotti fitosanitari non è d’altro canto un fattore secondario: il fatto che “i pesticidi biologici siano spesso rifiutati in quanto meno efficaci degli equivalenti chimici”, come si legge nella presa di posizione dell’ europarlamento, non è determinato solo da ragioni economiche o “estetiche”, ma anche dal fatto che alla minore efficacia si associa spesso una maggiore probabilità di insorgenza di fenomeni di resistenza.
Per questi motivi la presa di posizione dell’europarlamento per dare una “corsia preferenziale” alla registrazione di pesticidi “bio” appare quantomeno curiosa, se non utopistica ed ideologica. Ma induce anche ad una riflessione, assolutamente costruttiva e non animata da spirito polemico, che riguarda anche il mondo del riso ed il travagliato momento che la filiera sta vivendo. Come noto (Riso Italiano sta seguendo attentamente la vicenda in altre pagine più “politiche” che “tecniche”), sta crescendo nelle nostre campagne un fermento, animato da tanti amici risicoltori sotto il logo “# il dazio è tratto”, che invoca misure di protezione della produzione comunitaria e nazionale dalla concorrenza selvaggia del riso di provenienza asiatica. E’ significativo e per certi versi deprimente notare come le Istituzioni europee abbiano in questi anni ribaltato non solo il principio della “preferenza comunitaria” che costituiva uno dei pilastri del Trattato di Roma su cui si fonda la stessa costruzione di un processo aggregativo forse non a caso entrato in evidente crisi. Ma anche come stiano ribaltando i concetti di tutela della salute del consumatore e delle cosiddette “barriere non tariffarie”: mentre in Europa si vieta l’uso di mezzi e tecnologie di produzione in nome di esigenze salutistiche ed ambientali spesso non suffragate da oggettivi dati scientifici ma solo da pregiudizi ideologici, pare non si faccia nulla per limitare e neppure per controllare l’importazione di prodotti agroalimentari ottenuti con mezzi e tecnologie da noi vietati. Gli esempi sono molteplici, ed hanno come costante vittima non solo l’agricoltore europeo in genere ed italiano in particolare, ma anche gli ignari consumatori: esposti a rischi sanitari se le limitazioni alla produzione agricola europea fossero fondate, ad evidenti speculazioni se tali limitazioni fondate non fossero. Autore: Flavio Barozzi, dottore agronomo