«La trasmissione di Report andata in onda domenica 14 Dicembre 2014 su Rai 3 ha messo in luce alcune incongruenze del mercato del riso “biologico” in Italia – scrive oggi l’agronomo vercellese Giuseppe Sarasso (foto piccola) su Georgofili Info, edito dall’Accademia dei Gorgofili -. Secondo i dati S.I.N.A.B., nel 2013 la superficie a riso certificata in Italia come “biologica” è stata di 8.405 ettari, dai quali sono state raccolte 57.000 tonnellate di risone, con una produzione di 6,78 t/ha, rispetto ad una media nazionale che per lo stesso anno l’Ente Nazionale Risi ha certificato in 6,6 t/ha . Dati sbalorditivi per gli addetti ai lavori, e non solo. La certificazione del riso “biologico”, coltivato in aziende in maggioranza miste, che applicano il metodo convenzionale su parte dei terreni, si basa principalmente sulle analisi chimiche del prodotto lavorato. Da queste, è ben difficile riscontrare l’eventuale utilizzo di fitofarmaci, a meno di usi impropri. I prezzi del risone “biologico” sono attualmente molto più elevati del convenzionale, fino a raggiungere il triplo per i tipi indica, le cui quotazioni sono attualmente al di sotto dei costi di produzione a causa di importazioni senza dazio da alcuni Paesi asiatici. Se si aggiunge che il costo medio dei fertilizzanti e fitofarmaci ammonta a 675 €/ha , il vantaggio economico di coltivare con metodi “biologici” che ottengano produzioni superiori al convenzionale è straordinariamente importante. L’attività agricola per definizione è svolta alla luce del sole, alla vista dei confinanti e di tutti quelli che percorrono le campagne. Eventuali tecnologie idonee ad ottenere produzioni così rilevanti e ben retribuite, senza utilizzare fertilizzanti di sintesi e fitofarmaci, dovrebbero essersi diffuse rapidamente a tutta la risicoltura, come è successo per molte altre innovazioni vantaggiose, ad esempio le livellatrici laser ed i tracciafile satellitari. E’ logico inoltre chiedersi per quale motivo la certificazione biologica, eseguita da soggetti privati, venga richiesta solo per il 3,8% della superficie totale, e lo specifico contributo UE, soggetto a controllo pubblico, per meno di 1/3 di quella certificata. Il 96,2% dei risicoltori si è dimostrato invece perplesso ad adottare tecniche colturali così miracolose. Saranno tutti retrogradi? A questi hanno dato voce le associazioni delle province risicole dei giovani agricoltori di Confagricoltura, le quali mediante un comunicato congiunto hanno stigmatizzato l’inefficienza dei controlli, e richiesto che la certificazione “biologica” venga rilasciata solo alle aziende che ne applicano il disciplinare su tutta la superficie, assicurando un rigoroso rispetto delle regole.
Le conclusioni della citata inchiesta giornalistica, tratte dalle dichiarazioni rilasciate dall’unico produttore di riso biologico intervistato, inducono a ritenere che sia economicamente vantaggioso coltivare riso “biologico”, praticando avvicendamenti biennali riso – maggese con sovescio, ed accontentandosi di produzioni inferiori a 3 t/ha, ottenute ad anni alterni. La Regione Piemonte, accogliendo prontamente questa tesi, con il DGR 41-526 del 4 novembre 2014, ha revocato una precedente delibera che derogava l’obbligo di avvicendamenti colturali per il riso bio. Dal 2015, definito come anno di partenza, è ammessa una monosuccessione a riso per tre anni, seguita da due anni di avvicendamento, uno dei quali destinato a leguminosa o coltura da sovescio.
Tutto sistemato dunque?
La risicoltura è stata praticata senza fertilizzanti chimici fino al 1847, data dei primi esperimenti condotti da Camillo Benso conte di Cavour, nella tenuta di Leri. Nel 1926, grazie all’affermazione dei fertilizzanti di sintesi, le produzioni medie unitarie di risone erano raddoppiate rispetto al 1860 ( da 2,2 a 4,5 t/ha). Solo a partire dagli anni ’50 del secolo scorso sono stati disponibili gli erbicidi selettivi. Prima di allora, nonostante l’applicazione di rotazioni colturali, (normalmente comprendevano due-tre anni di riso, una sarchiata, una coltura autunno-vernina ed una foraggera) era indispensabile praticare la monda manuale, che richiedeva oltre 270 ore di lavoro ad ettaro. Questo accadeva prima dell’introduzione accidentale in Italia (1968) di Heteranthera sp, una infestante che, per la grande capacità di disseminazione, il portamento e la capacità di riprodursi anche per rizoma, rende impossibile la monda manuale.
La storia è ricca di sperimentazioni di lotta meccanica alle infestanti della risaia: i migliori, più recenti, risultati riportano percentuali di controllo pari al 60%, che non sono tecnicamente ed economicamente accettabili. Al momento una risicoltura senza erbicidi sarebbe sostenibile nel tempo solo se la lotta meccanica, in aggiunta alla rotazione colturale, conseguisse il controllo del 98% delle infestanti. Permangono quindi gli interrogativi ed i forti dubbi su quali metodi vengano utilizzati nel riso “biologico”, per difenderlo dalle infestanti, attività fondamentale per ottenere abbondanti produzioni che si protraggano nel tempo.
L’idea di poter “nutrire il mondo” senza l’utilizzo di fitofarmaci e fertilizzanti di sintesi, ripetuta all’infinito, si è trasformata in un assioma che, pur indimostrabile, è alla base di una ideologia in grado, grazie alla forte pressione mediatica, di costruire una ricca domanda. A questa, il mercato riesce a fornire una risposta altrettanto ideologica». (09.01.15)