Il 16 giugno si è svolto presso la sede del CREA (ex Stazione Sperimentale di Risicoltura di Vercelli) un convegno sul riso biologico. Argomento più volte trattato su Risoitaliano, che ha a suo tempo pubblicato lo scambio di lettere tra Federbio e Regione Piemonte riguardanti le competenze e responsabilità dei controlli sulla filiera del bio. Al convegno si è verificato un tentativo di pace, con il dott. Carnemolla, presidente di Federbio, che ha annunciato un tavolo di concertazione al fine di definire i parametri dei controlli. Fatto dovuto, in quanto i regolamenti europei li attribuiscono allo Stato Membro, che li può, sotto la sua responsabilità, delegare ad organismi privati, ancorché certificati. Quindi la Regione, che nel caso italiano ha la delega dello Stato, ha la facoltà, ed anche l’obbligo, di dirigere e verificare l’operato degli enti certificatori.
Più problematica invece la posizione relativa alle cause in corso conseguenti i controlli eseguiti l’anno scorso: in sei aziende risicole bio su sei controllate è stata riscontrata presenza di fitofarmaci nell’acqua e nel terreno. La strategia difensiva delle aziende in questione attribuisce i residui alla presenza generalizzata di fitofarmaci nelle acque irrigue, dovuta all’utilizzo da parte dei risicoltori “convenzionali”. Federbio ha sposato in pieno questa tesi, arrivando ad ipotizzare la costituzione di un “distretto totalmente bio” che assicuri la disponibilità di acque non inquinate. Non si comprende come questo si possa realizzare, se non con una imposizione per legge, comunque problematica dal punto di vista costituzionale. Anche la fattibilità pratica dell’operazione non risulta possibile, vista la conformazione del reticolo irriguo. Tra l’altro Federbio, in contraddizione con questo postulato, difende a spada tratta , in tutte le sedi, le aziende miste, dove si possono eseguire la coltivazione bio e contemporaneamente applicare fitofarmaci nella parte convenzionale.
Il dott. Carnemolla si è inoltre scagliato contro il dossieraggio, sfidando più volte chi mette in dubbio l’efficacia dei controlli a fare nomi e cognomi degli eventuali trasgressori, che vanno puniti. Posizione più che legittima, se non contrastasse con l’attribuzione dei ritrovamenti di fitofarmaci nei terreni bio ad una situazione di diffuso inquinamento delle acque. La situazione è ben diversa, se si analizzano con oggettività i dati pubblicati da ARPA sui ritrovamenti di fitofarmaci nelle acque superficiali della Provincia di Vercelli. Nel 2014, dato più recente in nostro possesso, su 7.815 analisi effettuate, 7.671 non contenevano tracce rilevabili, 110 rilevavano tracce al di sotto del limite delle acque potabili (<0,1 μg/l , parti per miliardo), e 94 tracce superiori al limite. Il limite stesso (SQA = Standard di Qualità Ambientale) dovrebbe essere fissato per ogni fitofarmaco in base alla sua tossicità; attualmente pochissimi di questi standard sono stati fissati (ad esempio terbutilazina). In assenza della definizione dello standard di qualità, come si verifica per tutti i fitofarmaci utilizzati in risicoltura, in automatico si adotta il limite stabilito per la potabilità delle acque di 0,1 μg/l. Ricordiamo, a titolo di paragone, che il benzene è ammesso nelle acque potabili fino alla concentrazione di 1 μg/l, e l’arsenico a 0,5 μg/l . Per chi volesse approfondire l’argomento, segnaliamo l’articolo apparso a firma di Andrea Diguardo ed Antonio Finizio (Università di Milano) a pag. 55 dell’Informatore Agrario n° 23 del 9/15 giugno 2016. Vi si dimostra che passando dal limite imposto per le acque potabili al limite SQA, una mappa dell’inquinamento passa come per magia da inquietante a rassicurante.
La situazione delle acque irrigue appare comunque rassicurante anche utilizzando il limite più stringente applicato alle acque potabili: se il 98% dei campioni non contiene residui, vuol dire che i ritrovamenti riguardano eventi puntiformi dovuti agli sconsiderati comportamenti di alcuni risicoltori, fortunatamente pochi, che andrebbero scovati e puniti. Se al fine di giustificare i comportamenti impropri di qualcuno si attribuisce l’impossibilità di coltivare riso biologico al cattivo stato delle acque, implicitamente si indica tutto il riso convenzionale come inquinato, e quindi poco salubre. Un altro esempio di dossieraggio, ma in senso inverso.
Al convegno è stato più volte ripetuto dai relatori, come se fosse un refrain, che il mercato richiede più riso biologico, e che occorre soddisfarne la richiesta prima di eventuali importazioni dai PMA. Per fornire una risposta italiana alla domanda è opportuno migliorare tutto il sistema, scovando e perseguendo i comportamenti scorretti. Non ci si può comunque illudere che il problema dei PMA non esista: con i salari cambogiani di 5 $ al giorno, la monda a mano delle infestanti costa meno del diserbo in Italia: se non si proteggono con adeguati dazi il riso italiano convenzionale e bio, per entrambi il futuro più che bio sarà buio. Autore: Giuseppe Sarasso.