Quando la Storia insegna come la mancanza di libertà individuali ed economiche, le lacune culturali e le carenze nel progresso scientifico, unite agli eccessi dell’ideologia e della burocrazia possono generare disastri. Questo potrebbe essere, in estrema sintesi, il filo conduttore della conferenza sul tema “Le carestie sovietiche: effetti sull’agricoltuRa e sulla sicurezza alimentare” tenutosi presso la Società Agraria di Lombardia il 16 maggio con la relazione del prof. Ettore Cinnella, docente di Storia Contemporanea e di Storia dell’Europa Orientale presso l’Università di Pisa.
Nel corso del seminario Cinnella ha delineato le ragioni delle terribili carestie che hanno funestato i regimi comunisti nel XX secolo provocando diverse decine di milioni di vittime (la più devastante, e finora poco conosciuta, resta la carestia che ha colpito la Cina per effetto delle scelte del regime maoista alla fine degli anni ’50 del secolo scorso, per la quale a seconda delle fonto storiografiche si stimano da 38 ai 43 milioni di morti…), soffermandosi in particolare su quelle che hanno colpito l’URSS nei periodi 1921-22, 1932-33 e 1946-47. Tre fasi di devastante carenza nelle produzioni agricole e nelle disponibilità alimentari che hanno avuto diversi fattori scatenanti (dai problemi climatici, con la presenza di fasi siccitose, a quelli socio-economici e fondiari), ma nelle quali sono risultati determinanti gli errori della politica. Nella prima carestia, quella del periodo 1921-22, il ruolo determinante è stato svolto dalle politiche di requisizione obbligatoria dei raccolti derivanti dal “comunismo di guerra”, in seguito parzialmente mitigate dalla NEP. Nella ancor più devastante carestia del 1932-33 (con stime di 6-8 milioni di morti) si è rivelata determinante la politica di “dekulakizzazione”, ovvero di eliminazione dei contadini laboriosi bollati come “nemici del popolo” e di “punizione” dei ceti rurali che non si volevano piegare ai dogmi dello stalinismo. Nella carestia del 1946-47 un peso decisivo è svolto dall’inefficienza del sistema delle fattorie statali – i sovchoz- e delle fattorie collettive – i kolchoz- (che i ceti agricoli speravano fossero abolite o perlomeno riformate dopo il grande contributo fornito dalla popolazione delle campagne alla vittoria nella “grande guerra patriottica”) che porterà in seguito l’URSS al ruolo di costante importatore di derrate alimentari e di produttore agricolo perennemente arretrato. Una situazione che condurrà ad un’altra carestia meno nota, quella del 1963, da cui deriverà la destituzione di Krushev.
Tutte le carestie nei regimi comunisti si caratterizzano per l’imposizione ideologica di norme tecniche di dubbio fondamento scientifico quando non assurde: dalle teorie di Lisenko, passando alla persecuzione dell’ agronomia “capitalista” di Vavilov e all’irrisione verso le scoperte di Watson e Crick, per arrivare alle prescrizioni sulla fittezza di semina delle colture che in tal modo dovrebbero sviluppare una “solidarietà di classe”, fino all’armonia “proletaria” che dovrebbe instaurarsi tra specie coltivate ed infestanti all’interno dei campi. Non è quindi casuale che gli organizzatori abbiano voluto realizzare questa conferenza -che costituisce l’ideale completamento del convegno su “Penurie, carestie e sicurezza alimentare” tenutosi il 21 ottobre 2017 con la collaborazione tra Società Agraria di Lombardia, MuLSA, Accademia dei Georgofilie Fondazione Morando Bolognini- quasi come fosse un monito in un momento in cui la metodologia scientifica, specie se applicata all’agricoltura, viene snobbata se non posta sotto attacco da parte di vasti settori dell’opinione pubblica e della politica. (Nella foto grande: contadini affamati in una strada di Charkiv, 1933) Autore: Marco Sassi