Come ammendante in risicoltura il biochar (o carbone vegetale) non funziona. Lo stabilisce una sperimentazione dell’Ente Nazionale Risi. Il biochar è un sottoprodotto derivante da processi di pirogassificazione di materiali di origine vegetale. Un materiale ricco di carbonio e chimicamente stabile, che può essere impiegato in agricoltura come ammendante. Può, ma non funziona, si scopre dai primi dati diffusi in uno studio a firma di Daniele Tenni, Eleonora Miniotti, Gianluca Beltarre e Marco Romani. In Italia non è ancora stato emanato un decreto che consenta l’uso del biochar come ammendante e attualmente è considerato un rifiuto, ma il suo utilizzo in agricoltura sta riscuotendo un crescente interesse nella comunità scientifica. Per questo all’Ente Risi se ne sono occupati, cercando di capire se le virtù di questo materiale (incremento della capacità di campo e della ritenzione idrica, capacità di scambio cationico a beneficio dell’efficienza d’uso di numerosi elementi nutritivi e contenendo le perdite per lisciviazione, miglioramento dell’habitat microbiotico e correzione del pH in suoli acidi o subacidi, ma soprattutto la capacità di ridurre le emissioni di N2O, uno dei principali gas serra) fossero reali e applicabili nella risicoltura italiana. L’esame (foto piccola) è avvenuto nel Centro ricerche di Castello d’Agogna, confrontando il trattamento con biochar, un sito non ammendato, in combinazione con sette diversi programmi di concimazione azotata, al fine di valutare anche la potenziale azione sinergica. «Il biochar utilizzato è derivato da un impianto industriale alimentato a pellet di legno di conifera ed è stato distribuito in presemina alla dose di 40 t ha-1 solamente nel primo anno di sperimentazione, operando su terreno arato e livellato e procedendo a interrare l’ammendante con una doppia erpicatura a 15 cm. Nel secondo anno, è stata poi eseguita nuovamente l’aratura che ha rimescolato il suolo per circa 25 cm. Per quanto riguarda la concimazione azotata, eseguita sempre in forma ureica, il programma sperimentale ha previsto quattro trattamenti con azoto distribuito unicamente in presemina (0, 60, 100, 140 kg N ha-1) e due trattamenti con frazionamento secondo due differenti schemi (60-20-20 e 60-40-40 rispettivamente in
presemina-accestimento-differenziazione della pannocchia)». I risultati «non hanno mostrato differenze statistiche tra la tesi con biochar e il testimone non ammendato, che peraltro hanno ottenuto valori molto simili tra loro. Questa tendenza si è manifestata in entrambi gli anni: nel 2013, infatti, le produzioni sono state di 9,07 e 9,04 t ha-1 rispettivamente per trattamento con biochar e no biochar, mentre nel 2014 di 9,14 e 9,17 t ha-1 (si veda la figura). Si nota, inoltre, che l’annata agraria non ha influito sulla produzione di granella, rimasta pressoché costante in entrambi gli anni. Passando, poi, a valutare i risultati produttivi ottenuti esclusivamente dall’effetto della concimazione azotata, sono emerse, come atteso, differenze tra i trattamenti (dati non riportati). Nel 2013 il livello più alto di N ha ottenuto la maggior produttività, sia quando frazionato (60-40-40 kg N ha-1) sia distribuito in un unico intervento (140 kg N ha-1 in presemina), mentre l’aggiunta di 100 kg ha-1 di N in un solo intervento è risultata inferiore al frazionamento. Nel 2014, i risultati emersi dai diversi schemi di fertilizzazione a confronto hanno riconfermato l’efficacia agronomica della tesi 60-40-40 che però ha fatto registrare produzioni simili ai trattamenti con 100 e 60 kg ha-1 di N dati in un solo intervento. In questo caso, risultati inferiori sono stati ottenuti dall’apporto di 140 kg N ha-1 in presemina e dalla tesi con frazionamento 60-20-20 kg N ha-1». Una successiva valutazione è stata rivolta a verificare se la distribuzione di biochar potesse migliorare l’efficienza di utilizzo dell’N da parte della coltura, ma «non sono emerse differenze significative», ossia non si nota alcun effetto sinergico del carbone vegetale associato alla concimazione azotata, «in quanto non favorirebbe un aumento dell’efficienza d’uso dell’azoto» osservano i ricercatori su Il Risicoltore, che riporta la sperimentazione ed è in distribuzione postale in questi giorni. Gli autori ricordando anche che «l’estrema lentezza dei processi di mineralizzazione del carbone vegetale fa sì che tale prodotto non possa essere considerato una fonte di carbonio immediatamente disponibile per la degradazione da parte della comunità microbica. Non sembra, infine, migliorare l’efficienza di utilizzo dell’azoto, non consentendo, quindi, un risparmio dei mezzi produttivi se associato alla concimazione azotata». (17.03.15)