La bruciatura delle paglie ha sempre sollevato distinguo scientifici e diatribe scientifiche. L’Ordine dei dottori agronomi e dei dottori forestali di Milano ha pubblicato recentemente un’analisi del problema che risente ovviamente dell’esperienza lombarda ma fa luce su alcuni aspetti interessanti per tutti. «La condizionalità rappresenta una serie di norme in materia ambientale, di sicurezza alimentare, di benessere e salute degli animali, di buone condizioni agronomiche e ambientali che le aziende agricole devono rispettare – sottolineano in quest’analisi Gianni Azzali e Pamela Possenti – per poter accedere al regime del pagamento unico. Lo standard 2.1 della condizionalità, a cui sono soggetti i beneficiari dei contributi Pac, delle misure agro-ambientali del Psr e delle misure a sostegno della viticoltura, vieta la bruciatura delle stoppie e delle paglie, al fine di preservare il livello di sostanza organica presente nel suolo, di tutelare la fauna selvatica e di proteggere gli habitat. Sono, comunque, previste deroghe alla bruciatura delle stoppie, per i seguenti casi:
• per le superfici investite a riso;
• nel caso di interventi connessi a emergenze di carattere fitosanitario prescritti dall’autorità competente;
• in caso di norme regionali inerenti la regolamentazione della bruciatura delle stoppie e delle paglie. Questa deroga è sempre esclusa per le aree individuate ai sensi della direttiva 2009/147/CE e della direttiva 92/43/CEE, salvo diversa prescrizione della competente autorità di gestione.
La normativa in dettaglio
Al di là delle questioni legate alla condizionalità e alla protezione dagli incendi, la bruciatura delle stoppie e del materiale vegetale è sempre stata considerata un’attività lecita. Da qualche anno non è più così, perché la stessa pratica ha assunto, di per sé, rilevanza penale, dapprima come contravvenzione, comunque sanzionata anche con pena detentiva, per divenire poi un vero e proprio delitto, che comporta la reclusione.
In questo quadro generale si pone il problema molto frequente di contestualizzare a livello normativo la bruciatura di stoppie, ramaglie e altro materiale vegetale di risulta dalle operazioni di manutenzione dei terreni e del verde.
La giurisprudenza si è occupata più volte della materia sulla base della legislazione vigente prima dell’entrata in vigore del decreto legge 10 dicembre 2013, n. 136, convertito con legge 6 febbraio 2014, n. 6, più comunemente chiamato decreto “Terra dei fuochi”, con riferimento al reato di smaltimento illecito di cui all’art. 256, comma 1.
Si ricordano due sentenze del Tribunale di Trento – la prima del 21 dicembre 2005, sezione di Cles, la seconda della sezione di Borgo del 6 marzo 2006 – che hanno ritenuto che bruciare in loco le stoppie e gli scarti di vegetazione costituisse il reato di smaltimento non autorizzato di rifiuti non pericolosi di cui all’art. 51, comma 1, lettera a) del Dlgs 5 febbraio 1997, n. 22, ora art. 256, comma 1, lettera a) del Dlgs 3 aprile 2006, n. 152. Le sentenze evidenziano che si tratta di rifiuti in quanto il detentore intende disfarsene e la tesi adottata dalla difesa, secondo la quale le ceneri costituirebbero un concime naturale, non trova riscontro nelle tecniche di coltivazione moderne. Altro aspetto che conferma pedissequamente la prima sentenza è che gli scarti vegetali sono compresi nel Catalogo europeo dei rifiuti (cod. CER 02.01.03), non sono considerate sostanze naturali non pericolose riutilizzate nelle normali attività agricole, né possono essere confusi con le materie fecali o con le terre da coltivazione provenienti dalla pulizia dei prodotti vegetali. Pertanto non sono, di per sé, escluse dalla normativa sui rifiuti ai sensi dell’art. 185, comma 1, lettera e) del Dlgs 152/2006, nella formulazione allora vigente. A rafforzare la sentenza è il fatto che il loro incenerimento integra un’operazione di smaltimento.
La suprema Corte, negli anni 2005 e 2009, si esprimeva in merito alle potature di alberi con riferimento non alla loro combustione, bensì al loro deposito incontrollato.
La difesa sosteneva non trattarsi di rifiuti, la Cassazione replicava – in modo perentorio –, che “secondo la giurisprudenza di questa Corte vanno qualificati come rifiuti… i materiali vegetali provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi”.
Si è ritenuto configurabile il reato di cui all’art. 51, comma terzo, Dlgs 22/1997 in caso di “deposito dei residui di potatura e pulitura degli alberi in zona adibita a discarica abusiva (Corte di Cassazione, sez. 3, n. 12356 del 24 febbraio 2005)”.
Una successiva sentenza della suprema Corte emessa nel 2013, ha ritenuto che la combustione di vegetazione e dei residui di potatura provenienti da un vivaio di piante e destinate a essere utilizzate come composto nello stesso vivaio costituisca attività che rientra nella normale pratica agricola, cui consegue l’esclusione, ai sensi dell’art. 185, comma 1, lettera f) del Dlgs 152/06 dei materiali di cui si tratta dal novero dei rifiuti.
Anche se la combustione delle stoppie rientra nella normale pratica agricola, questo non comporta affatto che si tratti automaticamente di materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso utilizzato in agricoltura, in selvicoltura o per la produzione di energia da queste biomasse mediante processi o metodi che non danneggiano l’ambiente né mettono in pericolo la salute umana.
Non si capisce quale sia la finalità dell’utilizzo, poiché l’unico intento di chi brucia le stoppie è di eliminarle e le ceneri che ne derivano vengono disperse. La Corte di Cassazione aveva già chiaramente ricordato sin dal 2008 che “non trova riscontro nelle tecniche di coltivazione attuali l’utilizzazione delle ceneri come concimante naturale”.
Anzi, sembra accertato che, in agricoltura, la combustione delle stoppie sia considerata una pratica non utile ma addirittura nociva. In proposito si ricorda che il decreto ministeriale 15 dicembre 2005, dando attuazione al Regolamento CE 1782/03, allegato 4 “gli Stati membri provvedono affinché tutte le terre agricole siano mantenute in buone condizioni agronomiche e ambientali”, alla norma 2.1 statuisce, in via generale, che “al fine di favorire la preservazione del livello di sostanza organica presente nel suolo… omissis… è vietata la bruciatura delle stoppie e delle paglie, nonché della vegetazione presente al termine dei cicli produttivi di prati naturali o seminati”.
Appare evidente l’importanza di definire esattamente i rifiuti vegetali di cui all’articolo 184, comma 2, lettera e) del Dlgs 152/06, visto che è proprio questo l’elemento che giustifica l’eccezione della sanzione amministrativa rispetto alla “regola” della reclusione per la combustione.
Si tratta di “rifiuti vegetali provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree cimiteriali”, inclusi tra i rifiuti urbani, e quindi, diversi dai “rifiuti derivanti da attività agricole e agro-industriali, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2135 c.c.”, che il comma 3, lett. a), dello stesso articolo 184 classifica come rifiuti speciali.
Quindi, prendendo in considerazione l’art. 2135 c.c. è possibile apprendere che “è imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse”.
Come prima precisazione, è possibile affermare che tra i rifiuti vegetali contemplati dal comma 6 non possono essere inclusi i rifiuti prodotti dalle attività agricole e agroindustriali sopra citate, esercitate a fini commerciali.
Ma c’è di più. Il Dlgs 152/06 parla di rifiuti agricoli anche nell’articolo 185, dove configura quali rifiuti non devono essere assoggettati alla disciplina della parte quarta, ossia quella sui rifiuti.
In sostanza, l’art. 185 individua alcuni “rifiuti agricoli” che sono per legge esclusi dalla disciplina del Dlgs 152/06. A questi, quindi, non si applica neppure il “nuovo” art. 256-bis sulla combustione di rifiuti.
Se ci si sofferma sulla dizione normativa italiana conseguente alle modifiche del 2010 (e attualmente in vigore) si nota che questa sembra distinguere, attraverso un “nonché”, i rifiuti agricoli “esenti” in “paglia, sfalci e potature” da un lato e “altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso…” dall’altro. Con la conseguenza che il divieto di combustione (così come gli altri divieti del Dlgs 152/06) non riguarderebbe paglia, sfalci e potature.
Il quadro normativo di insieme si è modificato nel tempo. L’art. 184 del Dlgs 152/2006 classifica come “urbani” i “rifiuti vegetali provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree cimiteriali” (comma 2, lettera e) e come “speciali” “i rifiuti da attività agricole e agroindustriali ai sensi e per gli effetti dell’art. 2135 codice civile” (comma 3, lettera a). Dal momento che è richiamato l’art. 2135 del codice civile, che disciplina le attività agricole, non vi è dubbio a quali residui di lavorazione si faccia riferimento.
In via di principio si tratta, quindi, di “rifiuti” nel senso proprio del termine, che debbono essere smaltiti secondo le apposite procedure previste, in base alla loro classificazione (urbani o speciali), che nel caso si fonda – più che sulla loro natura – sulla loro provenienza (giardini, aree verdi urbane, parchi, cimiteri oppure imprese agricole).
In qualche caso, si è cercato di applicare l’art. 183 del Codice ambientale per le azioni messe in atto dagli agricoltori che hanno bruciato le stoppie e le ramaglie in campo, con l’intento poi di utilizzare la cenere per la concimazione degli stessi. L’art. 183 del Codice ambientale prevede anche la possibilità della prevenzione, ossia di misure adottate per evitare che “una sostanza, un materiale o un prodotto diventi rifiuto” per esempio “attraverso il riutilizzo dei prodotti o l’estensione del loro ciclo di vita” o, più spesso, di includere la cenere fra i “prodotti secondari”, che l’art. 181 bis escludeva dall’ambito dei rifiuti, purché in possesso delle caratteristiche da determinarsi con decreto del Ministro dell’Ambiente di concerto con il Ministero della Salute e il Ministero dello Sviluppo economico.
L’art. 181 bis è stato abrogato dal Dlgs 205/2010 ma, già nella sua vigenza, la giurisprudenza, nella scelta fra la qualificazione di “rifiuto” e quella di “materia prima secondaria riutilizzata in settori produttivi diversi senza pregiudizio per l’ambiente”, propendeva per il rifiuto con conseguente definizione della bruciature di stoppie e ramaglie quale reato di smaltimento non autorizzato di rifiuti speciali non pericolosi di cui all’art. 256, comma 1, lettera a) del Dlgs 152/2006. Il legislatore, con la promulgazione del Dlgs 205/2010, intendeva forse venire incontro a una parte delle istanze degli imprenditori agricoli attraverso una più puntuale distinzione fra rifiuto e sottoprodotto o materia prima secondaria di provenienza agricola. È stato così introdotto nel “Codice ambientale” un nuovo articolo, il 184 bis, ed è stato modificato il testo dell’art. 185 per escludere dalle procedure di smaltimento rifiuti “paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso utilizzato in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di energia da questa biomassa mediante processi o metodi che non danneggino l’ambiente né mettono in pericolo la salute umana”.
Il risultato è stato un aggravamento per quanto riguarda la pratica della bruciatura dei residui colturali, in quanto ne deriva che in questo caso paglia, ramaglia, ecc. continuano a essere considerati “rifiuti” o comunque a essere sottoposti ai processi di smaltimento per questi previsti, dal momento che ardendoli non si produce energia, nel senso voluto dalla legge – anche se il fuoco è indubbiamente una forma di energia –, e nemmeno si ottiene un prodotto utilizzabile in agricoltura se si accede alla tesi della Cassazione – sicuramente discutibile – ma suffragata dalle indicazioni contenute nel Regolamento CE 1782/03.
Per dovizia di informazione, nell’ambito della Politica agricola comune e in attuazione del Regolamento CE 73/2009, il decreto ministeriale n. 30125 del 22 dicembre 2009 e s.m.i. prevede deroghe al divieto di bruciatura delle stoppie, al verificarsi delle seguenti ipotesi:
• la terra è destinata a produzione di riso;
• per necessità di carattere fitosanitario;
• quando regolamentata da disposizioni regionali.
La pubblicazione del decreto legge 136/2013 (convertito con legge 6 febbraio 2014, n. 6), nell’intento di reprimere le vicende criminose e dannose dal punto di vista ambientale – della cosiddetta “Terra dei fuochi” – in Campania, ha introdotto nel TUA l’art. 256-bis. Questo articolo prevede il nuovo reato di “Combustione illecita di rifiuti” che, nella sua ipotesi base, punisce con la reclusione da due a cinque anni “chiunque appicca il fuoco a rifiuti abbandonati ovvero depositati in maniera incontrollata in aree non autorizzate”; va meglio per i rifiuti vegetali “urbani”, ossia provenienti da giardini, aree verdi, cimiteri, che se la cavano con una sanzione pecuniaria di natura amministrativa.
Con il decreto legge 24 giugno 2014, n. 91, è stata modificata dal Senato in sede di conversione del decreto in legge, la norma che consente la combustione dei residui agricoli. La combustione di paglia, sfalci, potature e altre sostanze naturali non pericolose è considerata una normale pratica agricola e non un’attività di gestione dei rifiuti.
L’articolo 14, comma 8, lettera b), decreto legge 24 giugno 2014, n. 91 inserisce una disposizione nel codice ambientale (articolo 256 bis, comma 6, Decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152) per precisare che non si applicano le sanzioni connesse alla gestione dei rifiuti, né quelle previste per la combustione illecita di rifiuti abbandonati introdotti dal decreto sulla Terra dei fuochi, alla combustione in loco di materiale agricolo e forestale derivante da sfalci, potature o ripuliture in loco, nel caso di combustione in loco delle stesse.
L’ultimo atto dello Stato è la legge 11 agosto 2014, n. 116 (Supplemento ordinario alla Gazzetta ufficiale 20 agosto 2014, n. 192) che integra il decreto legislativo n. 152/2006 e autorizza gli agricoltori a bruciare residui vegetali raccogliendoli in cumuli nei terreni agricoli dove sono stati prodotti, distinguendo definitivamente questi materiali dai rifiuti. La legge pone il limite quantitativo di 3 m3 giornalieri e vieta questa pratica nei periodi di maggiore rischio di incendi boschivi definiti dalle Regioni. Inoltre, le amministrazioni competenti possono sospendere l’autorizzazione in condizioni meteorologiche, climatiche o ambientali sfavorevoli, come per esempio in caso di elevata presenza di inquinanti atmosferici.
La norma precisa che di questo materiale è consentita la combustione in piccoli cumuli e in quantità giornaliere non superiore a tre metri steri per ettaro nelle aree, periodi e orari individuati con apposita ordinanza del Sindaco competente per territorio. In qualsiasi caso, la combustione di residui vegetali agricoli e forestali è sempre vietata nei periodi di massimo rischio per gli incendi boschivi definiti dalle Regioni.
In ragione di questo chiarimento con la promulgazione di un nuovo atto normativo è possibile considerare la bruciatura come un mezzo di riutilizzo dei residui agricoli al fine di ricavarne cenere da utilizzare come fertilizzante, tralasciando il fatto che, con la combustione, si producono emissioni di fumo idonee a causare inquinamento atmosferico, vietate dal Codice dell’ambiente ai fini della tutela dell’aria.
In base alle priorità di tutela dell’ambiente e della salute umana a cui gli atti normativi fanno chiaro riferimento e per le quali l’Unione europea pone, da diversi anni, la sua particolare attenzione riguardo la protezione dell’ecosistema e la mitigazione dei cambiamenti climatici, è possibile asserire che il citato utilizzo in agricoltura dei residui agricoli debba escludere la combustione e riferirsi, più propriamente, alle moderne pratiche di trinciatura, interramento e compostaggio, annoverate tra le pratiche descritte nel codice di buona pratica agricola (decreto ministeriale 19 aprile 1999), pienamente ecocompatibili e in linea con le norme in materia ambientale.
Sebbene la gestione dei residui colturali condizioni anche la tecnica agronomica e influisca indirettamente sulle conseguenze ambientali del sistema colturale, è necessario individuare tecniche agronomiche che siano in grado di valorizzare i residui colturali al fine di migliorare le rese produttive con un minore uso di fertilizzanti minerali e ridurre le pressioni sull’ambiente.
Negli areali risicoli, il ritorno al suolo dei residui colturali in risaia svolge un ruolo controverso. In molte situazioni i risicoltori preferiscono bruciarli, perdendo circa il 70% della parte organica della paglia, per migliorare il controllo delle infestanti e dei patogeni, evitare la produzione di composti di fermentazione fitotossici e la flottazione di residui di paglia semidecomposti, che possono oscurare e coprire i semi di riso in germinazione.
In questo modo, però, sono distrutti annualmente enormi quantitativi di biomassa che potrebbero essere valorizzati diversamente (per esempio, essere incorporati nel terreno).
Quindi, i residui colturali occupano un posto di rilievo nell’economia dell’azienda agricola. Rappresentano un’importante fonte di materia organica in grado di contrastare – se opportunamente trattati “trinciati” e interrati – la progressiva diminuzione della fertilità del terreno agrario, caratteristica di ordinamenti colturali semplificati, in assenza di prati avvicendati e allevamenti animali.
In alternativa alla bruciatura in campo delle stoppie e alla valorizzazione agronomica per vincoli tecnici, il recupero energetico delle biomasse residuali può essere un’operazione vantaggiosa poiché riduce la dipendenza dai combustibili fossili e contribuisce ad alleggerire le conseguenze ambientali legate allo smaltimento di questi residui.
L’utilizzo di residui colturali a scopo energetico è uno degli strumenti indicati per la riduzione delle emissioni di gas serra in atmosfera: il bilancio della CO2 relativo alla conversione di stoppie e paglie in energia è considerato in via cautelativa neutro anche se da un’attenta analisi presenta una rilevanza ambientale positiva. Le emissioni di CO2 prodotte dall’utilizzo dei residui colturali sono compensate dalla quantità di CO2 assorbita, attraverso la fotosintesi, durante la crescita della biomassa stessa. Diverse ricerche evidenziano che la combustione “incontrollata” dei residui vegetali scarica nell’aria e fa depositare sui terreni, in quantità preoccupanti, sostanze che possono avere effetti negativi sulla salute dell’uomo (diossine, benzene, monossido di carbonio, polveri sottili). Se nel rogo finiscono materiali plastici o altri rifiuti si possono produrre polveri cancerogene.
Una nuova mentalità
Le diverse e contrastanti norme che si sono susseguite in un lasso di tempo molto breve, oltre a soddisfare le richieste di semplificazione con la motivazione che la bruciature dei residui vegetali agricoli è ancora una tradizione o un rituale di un’agricoltura legata al passato ma evoluta e supertecnologica, dovrebbero indicare che questa pratica dovrebbe essere attuata solo nei casi in cui è necessario tutelare un interesse pubblico, quindi prioritario, rispetto a quello ambientale.
Va da sé che occorre un cambiamento di mentalità, una nuova cultura agricola e ambientale che sembra prendere tempo con eccezioni e deroghe, se vogliamo comprensibili, considerato l’effetto prodotto dalle normative, non sempre coerenti tra loro.
È indubbio che un sostegno agli agricoltori risulti fondamentale per avviare questo cambiamento ed evitare che una buona tutela ambientale possa contrastare con un’efficace politica agricola, incentivando l’adozione di tecniche agronomiche che siano in grado di valorizzare i residui colturali al fine di migliorare le rese produttive.
Attualmente questa pratica ha perso tutto il suo fascino ed è vissuta come una normale operazione colturale, ignorando i progressi tecnologici che oggi permetterebbero l’interramento delle stoppie per il miglioramento della fertilità del terreno (mantenimento del livello di sostanza organica nel suolo tramite la corretta gestione delle stoppie e dei residui colturali). La sostanza organica nel suolo rappresenta la riserva di fertilità che produce effetti positivi sulla struttura del terreno, sulla disponibilità di principi nutritivi per le colture agrarie e su altre importanti funzioni ambientali svolte dal suolo.
Inoltre, il corretto mantenimento dei residui colturali favorisce la conservazione della biodiversità, in quanto le stoppie di cereali rappresentano un ambiente di interesse per le specie selvatiche come fonte di alimenti rappresentati dai semi caduti al momento della raccolta, di superficie di sviluppo di piante avventizie e di insetti appetibili.
È auspicabile, quindi, che si giunga alla predisposizione di un piano agronomico di fertilizzazione che tenga in debita considerazione il reintegro della sostanza organica attraverso la gestione dei residui colturali e dei diversi materiali organici disponibili in azienda o nel territorio circostante». (Nella foto piccola, l’interramento delle paglie di riso negli Usa) (27.12.14)