Una delle questioni che più a lungo hanno impegnato la filiera del riso è la riforma della legge del 1958 che disciplina le denominazioni con cui viene commercializzato il riso in Italia, più nota come legge del mercato interno. Ne abbiamo iniziato a parlare quindici anni fa. Questo sito ha ospitato molte opinioni su quest’argomento e ha diffuso la bozza (reperibile all’indirizzo http://www.risoitaliano.eu/mercato-interno-e-quasi-legge/) su cui il governo è delegato a riformare quella normativa. Recentemente, ho letto che Giuseppe Ferraris, un collega ed amico che rappresenta i risicoltori all’interno del Copa-Cogeca, vorrebbe ridiscutere tutto (http://www.risoitaliano.eu/ferraris-quella-legge-si-puo-ancora-discutere/): voglio dire chiaramente che non sono d’accordo e che considero la riforma necessaria e la griglia elaborata dalla filiera con il supporto tecnico dell’Ente Risi come la migliore soluzione possibile. Quella griglia, a parer mio, è uno strumento indispensabile per modernizzare la risicoltura italiana, allineando le esigenze del mercato all’attività di ricerca e selezione varietale da cui nascono le nuove varietà di riso italiano.
Oggi, i breeder inseguono le performances agronomiche, la resistenza alle fitopatologie, l’adattabilità alle diverse tecniche colturali e ai prodotti che sono utilizzati e naturalmente anche certe caratteristiche qualitative, ma massimamente si orientano ad assicurare alle nuove varietà la massima resa, mettendo in secondo piano le caratteristiche merceologiche e organolettiche della cariosside. Questo atteggiamento, dettato dall’esistenza di un impianto normativo datato, può apparire funzionale al bilancio aziendale, ma espone il risicoltore al rischio che una varietà di riso perfetta per cucinare il tipico risotto italiano venga di anno in anno esclusa dal gruppo di risi che possono venire commercializzati per tale scopo, cioè da quei risi che con un decreto ministeriale annuale sono inseriti nei diversi gruppi in commercio. L’assenza di una griglia che contempli parametri definiti ed il rifarsi a un decreto annuale induce i ricercatori a lavorare senza alcune informazioni che potrebbero orientarne l’attività in modo utile: si sta selezionando un riso simile al Carnaroli? Bene, allora dovrà rispettare determinate caratteristiche altrimenti non potrà essere venduto con quel nome, che tutti conoscono e sul quale l’industria investe pubblicitariamente. Sapere quali caratteristiche deve avere una nuova varietà per essere inserita in un gruppo oggi è possibile solo di anno in anno: è altresì vero che il Ministero non modifica spesso i parametri e già adesso adotta – per redigere il decreto in questione – la griglia su cui c’è stato l’accordo, cioè la griglia delle sei varietà capostipite che diverrà definitiva con la legislazione delegata; tuttavia la selezione di una nuova varietà è un lavoro che richiede diversi anni e una stabilità tecnico-normativa è dunque indispensabile.
Anche perché questa stabilità non permette di lavorare soltanto ai breeder ma anche all’industria: semplificare e codificare i gruppi e i parametri garantisce a quest’ultima una disponibilità di prodotto nel tempo che è la base di ogni investimento industriale. Ma ve lo vedete voi un imprenditore investire sul commercio di un riso che l’anno prossimo potrebbe non essere disponibile in quantità sufficiente perché alcune varietà che alimentano il suo gruppo sono costrette, per le più diverse ragioni, a uscire dal gruppo? Chi accusa l’industria di omologare il riso italiano ricordi che nel mondo questo prodotto non viene venduto per varietà ma per utilizzi e che noi risicoltori siamo molto fortunati perché la nostra storia è diversa, cioè perché gli industriali hanno colto un vantaggio nel promuovere le diverse varietà storiche di riso. Ai puristi, i quali vorrebbero che ogni varietà fosse commercializzata solo con il proprio nome, ricordo che le grandi varietà storiche sono sopravvissute commercialmente perché è stato possibile vendere varietà simili con il loro nome: diversamente, poiché le varietà storiche sono anche le più vulnerabili dalle fitopatologie, si sarebbero già estinte sia dal mercato che dalle nostre campagne. Potrei fare molti esempi per sostenere la mia tesi, ma ogni risicoltore sa che una varietà non esiste se non ha resa ma neppure se non ha mercato e che nessun’industria crederà mai in una varietà di cui non saremo in grado di assicurare una disponibilità adeguata. Per raggiungere quest’obiettivo occorre dare alla ricerca criteri di lavoro molto più chiari di oggi e un sistema di determinarli che non sia frutto di un annuale “mercato delle vacche” ma che sia il più possibile oggettivo e universale. Autore: Piero Garrione. (30.07.2015)