Il problema delle importazioni dai Pma ha molti aspetti, ma spesso si dimentica che una delle ragioni di debolezza del prodotto europeo è data dalla domanda di mercato. Partiamo dunque da lì: sembra che nel nord Europa nessuno si preoccupi più di tanto dell’origine del riso Indica che viene consumato. Tradizionalmente, la maggior parte dei paesi Ue sono Paesi consumatori di riso Indica, che è utilizzato come contorno, e quasi tutti hanno una lunga tradizione d’importazione, nel senso che si approvvigionano all’esterno dell’Europa. Paesi come l’Olanda, il Belgio, la Francia o la Germania fino a dieci anni fa hanno sempre comprato Indica semigreggio d’importazione – prima dagli Stati Uniti, poi, più recentemente, dal Sudamerica e dalla Tailandia – che veniva lavorato nelle riserie del Nord. Paesi dell’Est come la Polonia, la Republica Ceca o l’Ungheria, invece, compravano l’Indica dall’India e dal Vietnam. In questi commerci, l’origine del riso non è mai stato un elemento capace di determinare la scelta.
I flussi cui abbiamo fatto riferimento erano importanti, ma limitati dai dazi. Adesso, con il sistema delle importazioni a dazio zero dalla Cambogia o dal Myanmar, un gran parte del riso Indica consumato dagli europei proviene da quei Paesi ma anche in questo caso sembra che l’origine del prodotto al consomatore finale non interessi affatto. Al contempo, però, anche al consumatore di riso Indica interessa se il prodotto è stato coltivato in modo corretto, senza ricorrere al lavoro minorile e prestando attenzione al benessere del agricoltore locale. In particolare, sembra interessato al fatto che l’agricoltore cambogiano non guadagni piu di 5 anni fa, poichè quello era lo scopo della direttiva Eba che ha generato le esenzioni daziarie ai Paesi meno avanzati; è molto interessato, il nostro consumatore, a capire se il profitto legato al riso che mangia finisce nelle tasche di grandi gruppi industriali indiani e tailandesi che hanno costruito enormi riserie in Cambogia.
Al consumatore europeo interessa, inoltre, se esista nel Paese da cui proviene quel riso un sistema di controllo efficace sui residui di metalli pesanti, su erbicidi e pesticidi, un sistema di rintracciabilità che consenta il ritiro dei lotti di prodotto eventualmente contaminati. Inoltre, al consumatore interessa sempre di più se il riso ha viaggiato 10.000 chilometri nella stiva di navi che inquinano o solo 1.000 su un treno, sistema di trasporto più ecologico. Questi sono, a mio avviso, i punti nodali su cui fare lobbying con spagnoli e greci, che hanno le stesse preoccupazioni degli italiani: dovrebbero essere argomenti in favore del riso Europeo, ma manca la ‘pubblicità’ di questi argomenti.
Non è tutto. Se guardiamo al mercato del riso Japonica, scopriamo che le cose cambiano radicalmente. La concorrenza di questo prodotto in Europa è ancora meno diffusa e questo è un grosso problema per l’Italia, che è leader produttivo. Purtroppo, anche sul mercato del riso Japonica si annunciano tempeste all’orizzonte. Per prima cosa, non aiuta il settore il grande flusso di semente italiana che prende la via dell’estero. E’ il libero mercato, d’accordo, ma è un fatto che oggi cresca moltissimo Baldo in Turchia, molto Arborio in Spagna (dove lo chiamano Arboreo, ma agli effetti commerciali si tratta dello stesso prodotto), mentre il Ronaldo avanza in Grecia e Macedonia… Contrariamente a quanto si sente dire da sedicenti esperti di marketing, se l’Italia esporta le sue varietà – intese come sementi e know how – un giorno non venderà più il suo risone in quei Paesi.
Un altro aspetto non secondario dei problemi del riso italiano – indica e japonica – è il mercato. Dobbiamo essere chiari: la volatilità del prezzo del risone sul mercato italiano non aiuta. Abbiamo appeno visto concludersi il raccolto 2016 e neanche un mese dopo il prezzo del Indica alla borsa di Vercelli ha già preso la tendenza all’aumento, portandosi da 280 a 350. Un aumento di 7 euro al quintale di grezzo rappresenta un aumento di quasi 150 euro a tonnellata in termini di riso bianco. Con questi “salti” diventa quasi impossibile concludere contratti a lungo termine con l’industria del Nord e gli affari vanno verso Spagna e Grecia, paesi dove l’andamento del mercato è molto piu regolare, diciamo pure “piatto”. Va anche detto che in Italia, tante riserie hanno paura di impegnarsi per periodi lunghi come richiesto dalla loro clientela, perché, alla luce delle caratteristiche del mercato italiano, correrebbero un rischio troppo elevato sul fronte della materia prima. Terzo punto critico: il caos nella nomenclatura. L’Italia propone troppe varietà nuove, troppe denominazioni nuove e spesso anche miscele di risoni similari: l’abbondanza di varietà crea confusione mentre l’industria alimentare continua a richiedere il classico Loto, o Lido, o Selenio, in quanto sono i risi cui è abituato rivolgersi il consumatore.
Infine, occorrerà fare una osservazione sul riso biologico. Ad aprile l’Argentina farà un grande raccolto di riso japonica bio. Dopo tanti anni di esperienza sull’Indica Bio, gli argentini hanno iniziato a coltivare le varietà che chiede l’Europa, cioà grana media e/o tonda. La Cambogia, dal canto suo, affronterà il secondo grande raccolto di riso biologico a dicembre e anche i cambogiani hanno meso tanto riso medio… Attirati dai prezzi altissimi in Europa, tanti Paesi si stanno muovendo verso la produzione biologica e tra due-tre campagne la concorrenza con questi ‘nuovi’ biologici sarà esplosa. Pertanto, solo un aumento rapido della produzione, un buon controllo della qualità e un raffreddamento dei prezzi può salvaguardare il settore di riso bio in Italia. Autore: Stefan Stabel (foto grande) – S.Stabel bvba – Belgium – rice, broken rice & rice flour – www.stabel.be